Carbone in mare a Taranto
Scatta di nuovo l’allarme inquinamento a Taranto per il carbone che è caduto in mare, l’altra mattina, nel corso delle operazioni di scarico da una motonave proveniente da Malta e che era destinato allo stabilimento dell’Ilva.
Lo ha osservato anche il giornalista de L’Unità Salvatore Maria Righi e lo dice ai lettori tramite un tweet: <<A Taranto c’è più carbone su balconi e finestre che all’Ilva>>. Anche in questo caso nessuno ha colpa se non il vento, da quanto si evince da una nota diffusa dall’Ilva. Ma non è finita qui, perché queste terribili folate di vento sarebbero anche la causa di ciò che accaduto la mattina del 5 febbraio. Poco prima delle otto una quantità di materiale fossile bachatsky, valutata intorno ai 50 chili, è caduta in mare durante le operazioni di scarico al secondo sporgente dalla nave Kambanos. L’azienda ha reso noto che non si tratta di materiale pericoloso e la quantità di carbone che è andata perduta è esigua. La colpa ancora una volta è del vento, ennesima giustificazione fornita dal colosso tarantino per celare le proprie inefficienze e la propria negligenza in materia ambientale.
Il carbone che è caduto in mare a Taranto, l’altra mattina, nel corso delle operazioni di scarico da una motonave proveniente da Malta era destinato allo stabilimento dell’Ilva. L’allarme inquinamento è scattato al secondo sporgente del porto, con conseguenze ancora da quantificare. Sul posto sono subito intervenute le motovedette della Capitaneria di Porto e i mezzi della Ecotaras, società specializzata in interventi di disinquinamento dei mezzi per la bonifica che si sta occupando del contenimento e del recupero del materiale. Intanto, il ministero dell’Ambiente fa sapere, in una nota, che <<le operazioni di scarico della nave, che ha una stazza lorda di 81mila tonnellate, sono state immediatamente sospese mentre l’intera area interessata è stata circoscritta con panne galleggianti antinquinamento>>.
Inutile sottolineare come per l’Ilva, la dispersione di coke non avrebbe comunque determinato <<alcuna emergenza ambientale>> e la situazione sarebbe <<sotto controllo>>. Ci si chiede se si possa giustificare quanto accaduto addossando la colpa al vento. Più in generale, ci si domanda se si possa prescindere continuamente dagli obblighi che i grandi colossi industriali hanno nei confronti dell’ambiente, obblighi riguardanti le metodologie di scarico di materiale e tecniche finalizzate a evitare l’inquinamento. Se lo è chiesto Alessandro Marescotti, Presidente di Peacelink e tarantino di origine, sul blog de Il Fatto Quotidiano Ambiente e Veleni, facendo riferimento alla mancata applicazione delle prescrizioni dell’AIA (Autorizzazione Integrata Ambientale) che prevedono lo scarico dei materiali con tecniche che evitino la dispersione delle polveri nell’ambiente e in mare. <<Constatiamo inoltre che rimangono scoperti i nastri trasportatori che trasferiscono le materie prime dal porto alla fabbrica (nei ‘parchi minerali’). Quei nastri trasportatori dovevano essere coperti il 26 gennaio 2013, in quanto l’AIA dava 3 mesi di tempo a partire dal 26 agosto 2012>>, spiega il presidente, aggiungendo anche che Vendola aveva più volte annunciato di aver inserito tale copertura nell’atto di intesa del 2006. Tale copertura non è invece avvenuta in modo integrale così come osserva ancora Marescotti: <<Non è avvenuto il cambio radicale di scarico della nave che superi il rudimentale sistema della benna, che disperde le polveri al vento>>.
Eppure il 7 aprile 2011 era stato siglato un accordo fra il sindaco di Taranto Stefàno, il contrammiraglio Giuffrè (Autorità Portuale), il capitano di vascello Zumbo (Capitaneria di Porto) e Girolamo Archinà, portavoce dell’Ilva, avente proprio l’obiettivo di adottare <<idonei sistemi e procedure atte ad evitare ovvero contenere la caduta in mare di materiale minerale e fossile>>. L’accordo si è evidentemente rivelato un’astratta velleità, pura retorica fine a se stessa come quasi sempre avviene quando si parla di ambiente.
di Lucia Francesca Trisolini