La scena del video che documenta la morte di Eric Garner è straziante: è il 17 luglio di quest’anno, siamo a Staten Island, uno dei distretti della città di New York, e l’uomo viene abbordato dalla polizia perché sospettaro di contrabbando di sigarette. Rimane coinvolto in una discussione con un agente, il conflitto degenera e Garner viene atterrato con la forza e soffocato fino alla morte. Ripete estenuantemente «non respiro, non respiro», ma la morsa della polizia è inesorabile. Garner verrà dichiarato morto subito dopo l’inutile corsa in ospedale.

La tragedia ha recentemente assunto ulteriori, drammatici risvolti a seguito della decisione del Grand Jury (la giuria chiamata a decidere se portare avanti un determinato procedimento) di non incriminare Daniel Pantaleo, il poliziotto responsabile della morte dell’afroamericano.
Lo sdegno è sfociato in numerose manifestazioni di protesta svoltesi in molte città d’America, alcune in modo più pacifico, altre conducendo all’arresto di alcuni manifestanti. Il 13 dicembre è in programma una nuova marcia a Washington, come annunciato da Al Sharpton, attivista dei diritti civili e figura carismatica all’interno della comunità di colore.

Gli ultimi anni hanno tristemente visto acuirsi le tensioni razziali negli Stati Uniti. I sondaggi più recenti conducono alla dolorosa, drammatica constatazione che l’elezione di un nero alla Casa Bianca sia coincisa con un inasprimento dei pregiudizi e dell’insofferenza nei confronti della popolazione afroamericana. Quello di Staten Island è soltanto uno degli ultimi episodi di scontri a fuoco tra la polizia e un individuo di colore disarmato: ad agosto c’era stato Michael Brown, il diciottenne sospettato di furto,  ucciso a Ferguson dall’agente Darren Wilson; Akai Gurley, il giovane a cui l’ufficiale Liang ha sparato mortalmente mentre il ragazzo rientrava nella propria casa a Brooklyn; Tamir Rice, il dodicenne di Cleveland raggiunto da colpi di pistola mentre brandiva un’arma giocattolo; e Rumain Brisban, sospettato di spaccio di stupefacenti a Phoenix che, resistendo agli ordini della polizia, è fuggito in auto e infine morto dopo una colluttazione con gli agenti. Soltanto in quest’ultimo caso è stata rinvenuta un’arma nella vettura del sospetto.

L’escalation di scontri ha portato la Casa Bianca alla costituzione di una task force il cui compito è di conferire col Presidente Obama in merito a «specifiche raccomandazioni per rafforzare la relazione tra l’applicazione della legge e le comunità di colore e le minoranze che avvertono un pregiudizio»; particolarmente accorata la reazione del sindaco di New York Bill De Blasio, che ha confessato di aver raccomandato al figlio Dante prudenza con la polizia perché nero.
Molte anche le personalità del mondo della cultura e dello spettacolo che chiedono a viva voce una maggiore giustizia sociale: dal regista Spike Lee, che porterà a teatro una nuova edizione di Fa’ la cosa giusta, al presentatore tv Jon Stewart, che solleva la questione se questi episodi non siano «sintomatici di un problema più grande» e che rifiuta di vedere delle ambiguità in un caso che «il medico legale ha definito omicidio».
Ho al fortuna di vivere la maggior parte dell’anno a New York e in più di un’occasione ho riscontrato grande efficienza nella polizia. Oggi, però, non posso non chiedermi se, con un altro colore di pelle, avrei beneficiato della stessa solerzia. Voglio pensare di sì, che la stragrande maggioranza sia fedele alla vocazione di «proteggere e servire». Ma una maggioranza non è abbastanza.

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Twitter: claudia_pulchra