‘Na specie di cadavere lunghissimo di Fabrizio Gifuni al Teatro Vascello
Dal 29 GENNAIO al 3 FEBBRAIO 2013
orari: dal martedì al sabato ore 21 domenica ore 18.00
Teatro delle Briciole Solares Fondazione delle Arti
‘NA SPECIE DI CADAVERE LUNGHISSIMO
Un’idea di Fabrizio Gifuni
materiali per una drammaturgia:
da Pier Paolo Pasolini “Scritti Corsari”, “Lettere Luterane”, “Siamo tutti in pericolo” (intervista di Furio Colombo a P.P.P. dell’1/11/1975), “La nuova forma della meglio gioventù”, “Abbozzo di sceneggiatura per un film su San Paolo” di Giorgio Somalvico “Il Pecora”
Con Fabrizio Gifuni
Disegno luci Cesare Accetta
Regia di Giuseppe Bertolucci
“Sono sempre più convinto che i teatri, oggi più che mai, siano il luogo dove poter giocare una battaglia fondamentale per i destini culturali del nostro paese. Non mi vengono in mente tanti altri luoghi, come il teatro, dove una comunità possa continuare a ritrovarsi, liberamente, per condividere un momento di pura conoscenza emotiva.
Il corpo a corpo con lo spettatore fa del teatro un’esperienza unica e irripetibile. Il campo magnetico prodotto dall’incontro tra il corpo degli spettatori e quello dell’attore può determinare, a patto che in scena accada realmente qualcosa, un cortocircuito che non ha uguali dal punto di vista delle emozioni e della conoscenza.
Il teatro è anche uno degli ultimi luoghi dove si esercita ancora l’arte della memoria. Intesa sia come mnemotecnica (gli attori sono gli ultimi depositari di questa disciplina) sia come serbatoio di una coscienza storica collettiva. Per questo il teatro oggi fa più paura al potere.
Perché molti italiani ricordano. E non sono disposti a dimenticare. Perché molti italiani sanno che la sistematica distruzione della memoria storica del nostro paese è stata e resta uno degli obiettivi più pervicacemente perseguiti negli ultimi decenni. Perché azzerare e annullare il valore della memoria significa poter dire e fare, oggi, tutto e il contrario di tutto.
Il progetto Gadda e Pasolini: antibiografia di una nazione nasce da questo: dal desiderio di organizzare un grande racconto sulla trasformazione del nostro paese. Su ciò che eravamo, su ciò che siamo diventati o su ciò che in fondo siamo sempre stati. Per capire cosa è accaduto, come sia stato possibile arrivare a tutto questo. Una mappa cromosomica dell’Italia e degli italiani per orientarsi meglio in un presente troppo spesso buio, opaco e pericoloso.
Ho iniziato così, circa dieci anni fa, un lungo ed entusiasmante viaggio con Giuseppe Bertolucci – che non ringrazierò mai abbastanza per avermi accompagnato con il suo talento e la sua umanità – prendendo in prestito le parole di due autori per molti aspetti diametralmente opposti per formazione, lingua e visione della Storia.
Attraverso «studi» e passaggi successivi, hanno preso vita e corpo i due spettacoli ‘Na specie de cadavere lunghissimo (da alcuni testi di Pasolini e da un poemetto di Giorgio Somalvico) – andato in scena a partire dal 2004 – e L’ingegner Gadda va alla guerra o della tragica istoria di Amleto Pirobutirro (da due testi del Gran Lombardo e dall’Amleto di Shakespeare), che ha debuttato nel gennaio del 2010.
Quello che ne è venuto fuori, a distanza di anni, è un doppio sguardo sulla nostra storia del Novecento, feroce e inesorabile. Dove al «teorema pasoliniano» sulla mutazione antropologica di un intero paese si aggiungono, come tessere di un unico mosaico, le note gaddiane sulla Grande Guerra e le sue annotazioni psico-letterarie sul ventennale flagello fascista.
Due sguardi incrociati sulle dinamiche della grande Storia, spesso sorprendenti, dove termini come progressista o conservatore cedono il passo alla sola forza di due intelligenze in continuo movimento.
I due autori, pure così distanti, si ritrovano sul terreno comune di un amore furioso verso il proprio paese, partendo dalla loro personale tragedia privata. Due uomini che si conquistano sul campo la possibilità di poter esprimere un giudizio su ciò che li circonda, solo dopo aver fatto a pezzi se stessi. È per questo, credo, che le loro parole – come munite di una speciale forma di autorevolezza – sembrano avere, oggi, un peso specifico così grande. Da questa pratica autodemolitoria, da questo continuo far naufragio del proprio io, credo derivi la forza dei loro ragionamenti, oltre che della loro scrittura. In questo esercizio spirituale e al contempo laico risiede lo statuto etico del loro pensiero. Perché non basta esprimere un pensiero alto o condivisibile, ma è necessario che chi lo esprime sia credibile per chi lo ascolta.
Gadda e Pasolini analizzano da differenti angolazioni i sintomi di quella piaga – antropologica prima che storica – che fu il fascismo. Osservano la riemersione carsica (e dunque periodica) di quel liquame nero presente nelle arterie del nostro paese, marcano differenze e continuità tra il vecchio e il nuovo, individuano con precisione chirurgica i connotati endemici del fenomeno definito da Piero Gobetti – con lucidissimo in- tuito, nel novembre del ’22 – «l’autobiografia della nazione».
Nel primo dei due spettacoli – ‘Na specie de cadavere lunghissimo – l’emergenza drammaturgica nasceva dal desiderio di distillare sostanze linguistiche dai sapori apparentemente opposti: la prosa politica e polemica del Pasolini luterano e corsaro e gli endecasillabi inediti e sorprendenti di Giorgio Somalvico, che – in un romanesco crepitante e reinventato – costringe in metrica il delirio dell’omicida, in fuga da Ostia, in un’immaginaria scorribanda notturna alla guida dell’Alfa Gt.
Su questo formidabile poeta milanese – ancora incredibilmente troppo poco conosciuto rispetto al suo valore – ci sarebbe molto da dire. Poeta, romanziere, autore di libretti d’opera, pittore, espressione della migliore operosità ambrosiana, eppure schivo e appartato come Gadda, Somalvico nasconde nel ritmo dell’endecasillabo tutti i segreti artigianali del suo sapere teatrale e musicale.
Grazie all’invenzione del personaggio di Piero Pastoso («Detto Rana – e nun Pecora né Biscia / comm’ a tutti voantri ‘n malafede / – ve pozzino cecà! – ve piasce crede…»), il testo dello spettacolo è in grado di operare uno scarto semantico imprevedibile, trovando nei versi di Somalvico l’indispensabile anticlimax alle parole di Pasolini.
E così il «teorema pasoliniano» – genocidio culturale, imbarbarimento consumistico, uso strumentale dei media da parte del Nuovo Fascismo – si dispiega inesorabilmente in tutta la sua lucida disperazione, delineando – attimo dopo attimo – i connotati dell’assassino. Generandone i tratti identitari, le de-motivazioni profonde, «pensandolo», quell’assassino, prima ancora di incontrarlo, in un vertiginoso (quanto involontario?) processo di invenzione. Una sorta di agone tragico (inteso come «scontro», ma anche come «agonia») tra un Padre e un Figlio, vissuto in scena da un solo corpo e una sola voce, che de-genera, senza soluzione di continuità, da vittima a carnefice, da dottor Jekyll a mister Hyde, in una reazione a catena culturale e linguistica tutta da sperimentare. (..)”
Da “Gadda, Pasolini e il teatro, un atto sacrale di conoscenza” di Fabrizio Gifuni in “Gadda e Pasolini : antibiografia di una nazione” (Minimum Fax, 2012)
“Per Eraclito il mondo non è altro che un tessuto illusorio di contrari. Ogni coppia di contrari è un enigma, il cui scioglimento è l’unità, il Dio che vi sta dietro”.
Continuo a trovare in queste parole qualcosa che si avvicina moltissimo a quel profondo senso di mistero che accoglie la vita, l’opera e la morte di Pier Paolo Pasolini.
Quando alcuni anni fa iniziavo a pensare all’idea di uno spettacolo su Pasolini, è proprio in termini di opposizione che il mio istinto si muoveva : padre e figlio, natura e opera d’arte, vittima e carnefice, erano solo alcune delle antinomie che continuamente si affacciavano sul mio cammino. Ma anche il buio e la luce, la violenza e la mitezza, Dottor Jekyll e Mister Hyde.
Certo, l’urgenza politica era altrettanto forte: Così forte – in questi tempi bui – da rischiare di travolgere tutto. Il fiume si ingrossa pericolosamente e gli argini rischiano di rompersi. Ogni giorno che passa. C’era il desiderio di raccontare la tragedia pubblica e privata di un poeta che aveva visto scomparire in soli tre lustri il solo mondo in cui voleva riconoscersi. Il grido lacerante e disperato di un uomo che urlava nel deserto contro l’immoralità e la cecità del vecchio Potere che stava aprendo la strada all’avvento di un Nuovo Potere – di un nuovo fascismo – “il più potente e totalitario che ci sia mai stato.” Ma anche la privatissima tragedia di chi, in virtù di quella stessa catastrofe politica e antropologica che vedeva abbattersi sull’Italia, non riconosceva più i “corpi” dei suoi amati ragazzi, che sembravano trasformarsi – sotto i suoi occhi – da “simpatici malandrini” in “spettrali assassini”. I suoi amati “riccetti” stavano cambiando maschera: dall’innocenza al crimine.
Ma quella frase, scritta da Giorgio Colli, nella sua Nascita della filosofia, proprio nel 1975, anno della morte del poeta di Casarsa, ma riferita al grande sapiente di Efeso, continuava come un ragno invisibile a tessere la sua tela.
E la lettura di Petrolio – un viaggio spericolato nell’ultimo dei labirinti – mi riportava ancora a quella linea d’ombra: Carlo di Polis e Carlo di Tetis, protagonisti nella scissione del romanzo incompiuto, tornavano a spaccare l’io. Come Paolo di Tarso. Come Paolo di Casarsa. Al centro del labirinto stava la bestia immonda. Ma non era che l’immagine dell’eroe riflessa allo specchio. Passato a una Nuova gioventù, Narciso, al termine di infinite danze, si inabissava nel suo specchio d’acqua.
“Io sono una viola e un ontano, lo scuro e il pallido della carne…”, “io sono nero di amore, né Santo né Diavolo…”, “io sono un prete e un uomo libero, due scuse per non vivere…”.
La frantumazione e l’ossessione dell’identità tornavano a commuovermi.
“Noi siamo perciò una persona sola (la Dissociazione è la struttura delle
strutture: / lo sdoppiamento del personaggio in due personaggi / è la più grande delle invenzioni letterarie)”dice il poeta in Bestia da stile.
“Il Dio è giorno notte, inverno estate, guerra pace, sazietà fame”, dice Eraclito in uno dei suoi frammenti.
Non mi restava che seguire il corso dell’acqua.”
Da “Appunti per uno spettacolo” – Fabrizio Gifuni – 2003
Teatro Vascello _ Via Giacinto Carini 78 _ Zona: Monteverde ROMA
biglietti: intero 20,00 euro, ridotto 15,00 euro, ridottissimo 12,00 euro studenti, promozioni gruppi di almeno 10 persone