American Chronicles: il sogno americano a Roma
Willie Gillis è un ‘everyman’, quello che da noi si chiamerebbe uomo comune. È stato lui, con le sue guance paonazze e quel gesticolare un pò goffo, a tenere alto il morale dei cittadini americani durante la seconda guerra mondiale. Il suo papà d’arte è Norman Rockwell, artista, pittore e illustratore newyorkese, che nel reinventare a fumetti la storia di un ragazzone come tanti, lo ha accompagnato, con sguardo sarcastico e colori brillanti, dal primo eccitante giorno come recluta, all’abbraccio con la mamma di ritorno dal fronte, mettendogli sempre in tasca i valori genuini della società americana. Willie è solo uno dei protagonisti delle 323 copertine che Rockwell ha realizzato per il Satuday Night Post (The Post) tra il 1916 ed il 1963, tutte esposte nella mostra Norman Rockwell: American Chronicles, per la prima volta in Italia, ospitata fino all’ 8 febbraio a Palazzo Sciarra.
Passato alla storia come “realista romantico”, Norman Rockwell è stato il cantore scanzonato di 50 anni di america. Dai primi incarichi da giovanissimo come illustratore di biglietti natalizi, ai grandi servizi per le riviste Life, Literary Digest, Country Gentlemen, la sua arte è allegoria fiduciosa dell’ entusiasmo con cui i cittadini partecipano passo dopo passo alla costruzione di una nuova società, accendendosi di speranze, sogni, ideali.
Tra le decine di storie che fanno compagnia a Willie sulle pareti dorate della galleria, spicca il piglio dispettoso dei bambini vivaci, che non tardano diventare il soggetto preferito dell’ artista ‘della gente’. Gomma americana sempre in bocca, e grandi occhioni curiosi sotto la ‘zazzera’ bionda, brillano di una grazia schietta che strizza l’ occhio a Dickens, mentre raccontano il loro presente dal finestrino posteriore del pulmino giallo che li sta portando a scuola. E’ un mondo colto al volo quello di Rockwell, fatto di una routine ripresa di sfuggita, ma allo stesso tempo testimone loquace di quei particolari che regalano alla quotidianità il ruolo di ritratto ufficiale, come solo l’ innata capacità d’osservazione può fare.
Un mondo che si gioca sulla sincerità del primo piano, senza lontani punti di fuga che possano sviarci dall’ immediatezza degli stati d’animo, e senza il rischio meccanico della scorciatoia fotografica. Famiglie e tavole imbadite affollano i grandi spazi desolati e ‘virtuali’ che Edward Hopper proprio in quegli anni eleggeva emblema dell’ alienazione metropolitana, attingendo a tutta l’altra parte della tavolozza che il pittore trascura, quella dei colori brillanti e giocosi, e proponendo un viaggio aldiquà della provocazione, nello stile di chi nella storia dell’ arte fa meno clamore, poichè ‘pecca’ di leggerezza. I nostri occhi incontrano lo sguardo bonario di poliziotti fuori servizio, volti spensierati di giovani innamorati, ma anche l’incedere fiero di una bimba africana, autoritratto degli stati uniti delle discriminazioni razziali. Opere iconiche che invitano ad avvicinarsi nei valori di solidarietà ed ottimismo, con un pizzico pepato di irriverenza.
Twitter: @EvaElisabetta