Ebola, tra contagio e psicosi
Per qualcuno è già «la peste del terzo millennio». Dopo otto mesi, sono oltre diecimila i casi accertati, circa la metà le vittime. Se fermare l’epidemia sembra difficile, fermare il panico sembra impossibile. E mentre molti cavalcano la isteria da contagio a biechi fini elettorali, l’ebola continua a flagellare l’Africa Occidentale e fa sempre più paura a ogni latitudine.
Il virus è arrivato in Mali – è il sesto focolaio attivo del continente –, secondo un esperto potrebbe raggiungere presto la Cina, e l’Australia, nel dubbio, ha chiuso le frontiere: chi è stato in Africa non entra, non ci sono eccezioni nemmeno per i partecipanti a programmi umanitari. Anche l’Italia ha avuto i suoi primi casi sospetti – fortunatamente falsi allarmi – e chi rientra dai paesi colpiti è sottoposto a controlli o, come nel caso del medico e dell’infermiera rientrati dalla Sierra Leone, alla quarantena preventiva. Anche gli undici militari statunitensi arrivati alla base veronese dalla Liberia sono stati posti in isolamento sebbene nessuno presenti sintomi e una nave proveniente dalla Guinea, altro paese funestato dal virus, è stata bloccata a un miglio dalla coste toscane per accertare che non vi siano membri dell’equipaggio infetti. La prudenza non è mai troppa, si sa, anche se Medici Senza Frontiere lancia un appello contro la quarantena forzata per chi è asintomatico: «non sono fondate su alcuna base scientifica e potrebbero indebolire gli sforzi per arginare l’epidemia laddove ha avuto origine». Il rischio «d’importazione dell’infezione» per l’Italia – che non ha voli diretti con i paesi in cui la diffusione è epidemica – secondo il ministero della Salute è «remoto». Nonostante gli allarmismi di chi cerca di sfruttare la psicosi da contagio per una crociata anti-immigrazione, anche le possibilità di uno sbarco “clandestino” del virus sono assai limitate: «riguardo le condizioni degli immigrati irregolari provenienti dalle coste africane via mare, la durata di questi viaggi fa sì che persone che si fossero eventualmente imbarcate mentre la malattia era in incubazione manifesterebbero i sintomi durante la navigazione e sarebbero, a prescindere dalla provenienza, valutati per lo stato sanitario prima dello sbarco, come sta avvenendo attraverso l’operazione Mare Nostrum».
L’emergenza, quindi, non è sul territorio, ma sul piano internazionale: citando Gino Strada, fondatore di Emergency impegnato in Sierra Leone contro il virus «l’Ebola arriverà da voi se non lo fermiamo subito qui in Africa. E non arriverà attraverso i barconi, ma attraverso i voli in business class».
Fermare la psicosi, però, non è facile e a soffiare sul fuoco del panico-ebola sono in troppi. Lo dimostra il caso della bambina di Fiumicino cui le madri dei compagni hanno impedito di entrare alla scuola materna perché di ritorno da un viaggio in Africa. È dovuta restare a casa sette giorni, e a nulla sono valsi i tentativi di spiegare che l’Uganda, dove si era recata con la famiglia, non è tra i paesi a rischio. E che anche in quelli colpiti, ammalarsi non è così semplice, rispettando delle regole di base. La malattia, infatti, – che si manifesta con improvvisa febbre alta, dolori muscolari, mal di testa, mal di gola seguiti da vomito, diarrea, e in alcuni casi emorragie interne ed esterne – si trasmette attraverso un «diretto contatto con una persona malata già sintomatica». Le infezioni del virus ebola sono molto variabili, e per questo si possono solo fare ipotesi sul legame tra infezione, sintomi e rischio contagio. In genere un malato è contagioso quando esibisce i sintomi; per evitare in contagio, dunque, è importante non fare entrare la pelle con ferite, o mucose e membrane, in contatto con sangue o fluidi di un paziente che mostri segni d’infezione, o con tutto ciò che vi sia entrato in contatto (siringhe, aghi..). Allo stesso modo, si devono evitare contatti con i pazienti deceduti in seguito all’infezione (a seconda del ceppo sono tra il 25 e il 90%) e con animali – in particolare i pipistrelli – che potrebbero esserne veicolo. Il discorso è diverso per gli operatori sanitari, che lavorano in contatto ravvicinato con i malati: per loro le precauzioni devono essere massime.
In Africa, la situazione continua a essere drammatica, con l’unica nota positiva del debellamento del virus in Nigeria e Senegal. In Sierra Leone muoiono più di venti persone al giorno, la bambina ghanese che ha viaggiato per oltre 1.000 km in autobus per raggiungere l’ospedale fa tremare il Paese ed è i malati aspettano per ore, anche sotto la pioggia, di poter essere curati. Aiutare tutti, come denuncia Gino Strada nel «Diario Africano» sul Corriere, sembra impossibile: «i nuovi malati devono aspettare, che qualcuno muoia o venga dimesso guarito, che lasci libero un letto. L’impotenza, la frustrazione e la rabbia si mescolano: non è giusto, non è umano trovarsi un malato grave davanti agli occhi e non poterlo soccorrere».
Per combattere il virus, ha dichiarato Jim Yong Kim, presidente della Banca Mondiale, servirebbero oltre cinquemila persone ma «sono molto preoccupato, perché non so dove troveremo tutti questi volontari. Con la paura fuori controllo in così tanti luoghi, spero che i professionisti della sanità si rendano conto che lo spirito del giuramento che hanno prestato comprende anche momenti difficili come questo». Anche chi non è un medico, però, può aiutare, e senza partire per l’Africa: il portale Aavaz.org, infatti, ha organizzato una raccolta fondi per fornire «materiale sanitario di base, guanti, sapone o coloro, kit per la protezione personale e ambulanze, letti e attrezzature» ai centri per la cura dell’ebola. «Basterebbe che 50mila di noi donassero 16 euro a testa per prendere 10 ambulanze e 2mila tute protettive». E contro la psicosi da contagio, i liberiani alzano la testa: su twitter, infatti, è partita la campagna a suon di selfie “I am liberian, not a virus”.