Matrimonio gay, dove sposarsi all’estero

Loro dicono yes, oui, ja, sim. Alfano dice no, i sindaci lo ignorano, lui sguinzaglia ispettori e prefetti. Mentre Renzi promette le unioni civili e Berlusconi si riscopre paladino dei gay, in Italia il tira e molla sulle trascrizioni dei matrimoni tra persone dello stesso sesso contratti all’estero va in scena ormai ogni giorno. Ma quali sono i Paesi in cui il matrimonio è uguale per tutti e anche gli omosessuali italiani possono sposarsi?

I pionieri sono stati i Paesi Bassi: la legge è entrata in vigore nel 1998, ma è dal 1° aprile del 2001 che il «registro di convivenza tra persone dello stesso sesso» è diventato un matrimonio a tutti gli effetti. Con la nuova legge sul diritto di famiglia, infatti, i diritti e i doveri dei coniugi omosessuali – compresa l’adozione – sono diventati in tutto e per tutto identici a quelli delle coppie eterosessuali.
Il 30 gennaio 2003, il Belgio è diventato il secondo paese al mondo a legalizzare il matrimonio per tutti; dal 2006 anche la possibilità di adottare è stata estesa alle coppie omosessuali.
Nel 2005 è stata la volta di Spagna e Canada. Nel giugno del 2005, il governo socialista di Zapatero ha legalizzato, in un’unica legge, il matrimonio e l’adozione per le coppie dello stesso sesso. La legge è entrata in vigore il 3 luglio; due settimane dopo, anche il Canada ha approvato il Civil Marriage Act (Loi sur le mariage civil) estendendo tutto il territorio federale il matrimonio egualitario, già garantito in alcune province del Paese.
Nel 2006, per la prima volta un Stato africano ha legalizzato il matrimonio per tutti: si tratta della Repubblica del Sudafrica, enclave dei diritti – anche se non mancano i problemi – in un continente ancora funestato da pesanti restrizioni legislative per gli omosessuali. Significativamente, la legge sul matrimonio è arrivata dopo quella sull’adozione: già dal 2002, infatti, era possibile per le coppie omosessuali adottare, così come per i single.
La lunga corsa per l’uguaglianza ha avuto negli ultimi anni un’accelerazione: nel 2009 è stata la volta di Norvegia e Svezia, che già dagli anni ’90 riconosceva le unioni registrate. L’estensione del matrimonio, in questi paesi, ha avuto effetto anche sulle rispettive Chiese: sebbene i sacerdoti non possano essere forzati a celebrare matrimoni omosessuali, le coppie svedesi e norvegesi possono accedere anche al rito religioso. Nello stesso anno, anche il Messico ha legalizzato – nella capitale e nella regione di Quintana Roo – i matrimoni gay.
Argentina, Portogallo e Islanda si sono uniti alla lista nel 2010. La legge argentina è stata fortemente osteggiata dalla Chiesa locale: a pronunciarsi contro l’estensione dell’istituto matrimoniale alle coppie gay è stato soprattutto l’allora arcivescovo di Buenos Aires, Jorge Maria Bergoglio, quel Papa Francesco che ha fatto tremare il sinodo per «l’apertura» agli omosessuali.
Nel 2012 è stata la volta della Danimarca, vera avanguardia dell’uguaglianza che già dal 1989 (millenovecentoottantanove, 25 anni fa) aveva introdotto le register partnerskaab, le unioni civili, e nel 2013 anche Uruguay, Nuova Zelanda, Finlandia, Inghilterra e Galles e Francia hanno approvato leggi per estendere l’istituto matrimoniale a tutti i cittadini, mentre il Brasile l’ha legalizzato de facto, senza varare un’apposita normativa. Il 2013, però, è stato un momento di svolta anche per gli Stati Uniti: la Corte Suprema americana ha dichiarato incostituzionale il DOMA (Defense of Marriage Act), aprendo la strada al riconoscimento del matrimonio egualitario. Ad oggi gli Stati in cui è possibile contrarre matrimonio per le coppie dello stesso sesso sono 32: il 7 ottobre 2014, la Corte Suprema ha rigettato il ricorso di cinque Stati, aprendo la strada alla legalizzazione. E da giugno, anche nel piccolo Stato del Lussemburgo è possibile sposarsi e adottare per tutti i cittadini.

Fuori dai confini nazionali, quindi, la battaglia per i diritti ha ottenuto successi importanti e innegabili, anche se, contemporaneamente, si assiste a un drammatico inasprimento delle legislazioni sull’omosessualità, non solo nei Paesi tradizionalmente omofobi, ma anche in Stati che, quel cammino, l’avevano intrapreso. L’Italia, per contro, continua a rifiutare il grande passo, e agli omosessuali del Belpaese non rimane che partire. A quelli che possono permetterselo, ovviamente. Alcuni Paesi, infatti, – come Spagna, Olanda e Belgio – per evitare il “turismo matrimoniale” richiedono che almeno uno dei coniugi sia residente nello Stato in cui viene contratto il matrimonio. Anche se generalmente la residenza può essere ottenuta in poche settimane, la possibilità di sposarsi in questi paesi non è esattamente alla portata di tutti. In altri Paesi, invece, – è il caso del Canada, di Oslo, New York, e più in generale gli Usa – la residenza non è un requisito indispensabile. Anche in questo caso, però, i costi non sempre sono friendly: alcune agenzie specializzate offrono pacchetti matrimoniali (che comprendono voli, costi di registrazione, affitto delle sale municipali, documenti e traduttori ma escludono il ricevimento e le spese in loco) i cui prezzi variano dai 900 a persona per il Portogallo agli oltre 2.300 per gli Stati Uniti. Al ritorno, poi, c’è la babele della trascrizione: attualmente sono poco più di una decina i comuni che riconoscono i matrimoni contratti all’estero, in tutto il resto del Paese queste unioni non hanno validità. Sposati all’estero e celibi e nubili in Italia, cittadini europei che hanno diritti diversi scavalcando o meno un confine, per gli omosessuali la libera circolazione delle persone in Europa sembra proprio non valere.