Dentro le sale spaziose delle Scuderie del Quirinale dall’11 ottobre 2014 fino al 18 gennaio 2015 è possibile ammirare la straordinaria retrospettiva su uno dei più grandi pittori del Rinascimento fiammingo: Hans Memling. È la prima grande esposizione in Italia; molte delle opere presenti provengono dai più grandi musei di tutto il mondo dando in questa maniera non solo risalto alla straordinarietà dell’evento ma anche la possibilità allo spettatore di ripercorrere per intero il percorso artistico ed esistenziale dell’autore. Non sono stati reperiti documenti che attestino la data precisa della sua nascita; gran parte degli studiosi propende per il 1440 nella cita tedesca di Selingestadt. Anche il luogo il cui si è svolto il suo apprendistato rimane ancora una problema aperto; sebbene il Vasari lo collochi a Bruges sotto l’egida dell’illustre maestro Rogier van der Weyden fino al 1460, molti critici respingono questa ipotesi avendo molto spesso riscontrato nelle Vite diverse inesattezze sulla pittura fiamminga. È chiaro che alcuni dei primi lavori di Mamling presentano da un punto di vista stilistico delle somiglianze con alcuni disegni preparatori trovati in alcuni dipinti associati a Van der Weyden. Decisivo nello studio teso a definire i legami tra il maestro e l’allievo è il Trittico del Giudizio universale di Memling, purtroppo – come racconta in conferenza stampa il curatore della mostra Till-Holger- Borchert – per futili motivi non figura in mostra; l’opera oggi a Danzica (Muzeum Narodowe) presenta forti analogia con la pala di Rogier oggi esposta all’Hõtel-Dieu di Beaune. In tutte e due le opere la magnifica figura del Cristo appare nel centro, sopra l’arcangelo Michele che regge la bilancia per giudicare beati e dannati. Certo anche le differenze sono sostanziali; forte è infatti il contrasto tra la tumultuosità del pannello centrale di Memling rispetto alla silenziosa serenità della composizione di van der Weyden.

La mostra nella capitale intende evidenziare i rapporti tra l’arte italiana e quella fiamminga; soprattutto il fascino che quest’ultima esercitò sui banchieri e mercanti dell’epoca annoverati tra i molti committenti del pittore che, a ragione, viene considerato tra i più grandi pittori appartenenti alla seconda generazione della pittura fiamminga, dopo quella dei pionieri come Jan van Eyck, Robert Campin e Rogier van der Weyden. Il Trittico di Benedetto Portinari con l’emblema del committente è un mirabile esempio; il banchiere italiano è posto in un interno aperto su un movimentato paesaggio dove un sentiero si allunga su tutti e tre i pannelli come a invitare al pellegrinaggio interiore. Per quanto concerne le commissioni italiane ricevute da Memling è chiaro quanto tra i generi primeggiasse quello del ritratto divenuto intorno al 1470 uno dei cardini della sua attività favorendo in modo consistente la crescita della sua fama a Bruges.

Osservando i ritratti esposti si scoprono i motivi per cui la ritrattistica fiamminga generasse tanta ammirazione: la verosimiglianza è tale che non si può non convenire con quanto gli scrittori dell’epoca affermavano quando scrivevano che sembrava “mancasse loro solo l’anima”. Il realismo non era solo frutto della nuova tecnica ad olio che rispetto alla tempera dava una luminosità maggiore ai soggetti, ma il frutto di altre scelte relative al formato e all’impostazione. Erano soprattutto l’uso degli sfondi naturalistici, il ritratto di tre quarti rispetto a quello di profilo in voga in Italia e l’inclusione delle mani molto spesso posizionate ai bordi della cornice per dissolvere il limite tra il mondo reale e quello raffigurato ad impressionare lo spettatore.
La mostra conclude questo bellissimo viaggio con una tela del Ghirlandaio chiaramente ispirata a quella presente a fianco di Memling: la convergenza vuole essere una suprema sintesi dell’influenza dell’artista tedesco sull’arte italiana.

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