Nell’avvicinarsi a un grande delitto italiano un regista può scegliere di imperniare la sua storia sull’aspetto politico-criminale, sui misteri e le omissioni, costruendo un film-indagine come nel caso del malriuscito ‘Piazza delle cinque lune’ (Martinelli, 2003) sul caso Moro o del pregevole ‘Pasolini, un delitto italiano’ (Marco Tullio Giordana, 1995) sull’omicidio di Pasolini, che esplorano le nebbie e le dietrologie delle rispettive vicende. Una scelta di maggior respiro, per restare al caso Moro, è quella ad esempio di ‘Buongiorno, notte’ (Bellocchio, 2003) dove il fatto di cronaca è strumento per raccontare l’intera fase storica di un paese, immaginare i carnefici, far rivivere l’umanità della vittima attraverso la poetica del cineasta. ‘Pasolini’ di Abel Ferrara (2014), è più vicino a questa seconda impostazione ma non vi aderisce in modo completo. Come molti hanno già scritto ‘Pasolini’ è innanzitutto un tributo al grande intellettuale ucciso nel 1975, al quale viene lasciato lo spazio di raccontarsi attraverso le ultime interviste, le lettere (luterane), gli articoli, la ricostruzione delle ultime ore e, soprattutto, le opere. Un Pasolini vivente, non la sua icona, colto nella dimensione espressiva e polemica degli ultimi anni, legata in modo inscindibile alla sensibilità straordinaria e morbosa che lo caratterizzava, alla dimensione personale, intima e famigliare del poeta.

Ferrara, il regista effettivo, fa dunque un passo indietro e l’altro regista, Pasolini, parla attraverso le scene di Salò, l’ultima opera compiuta, la meravigliosa mise en scene di frammenti del suo romanzo incompiuto Petrolio e la realizzazione, ex-novo, di parte del’ultimo film soltanto immaginato, “porno-teo-kolossal”, con protagonista Eduardo De Filippo e il giovane Ninetto Davoli (nel film di oggi sostituiti da un Davoli ormai maturo e il giovane Scamarcio). Nel realizzare gli inserti ispirati dalle opere incompiute o soltanto progettate, Ferrara assume la poetica e l’estetica pasoliniana, perfino i ritmi, l’immaginario, gli stilemi, le facce degli attori scelti per il cast e le influenze del cinema italiano dell’epoca. Qui il tributo si fa talmente grandioso e insieme umile, assoluto e appassionato,   da farsi gesto d’amore prima che d’ammirazione, amore che traspare dalla cura e dalla fedeltà delle atmosfere, valorizzate da una tecnica registica assoluta, superiore a quella dello stesso Pasolini. In questo gioco di specchi tra opere e cineasti, la dimensione meta-cinematografica si fa a volte intricata e simbiotica, fino a sprofondare in un complesso gioco di scatole cinesi. Si realizza così sullo schermo, ad esempio, una storia poetica e surreale raccontata da un personaggio all’interno di Petrolio (il manager precipitato nel deserto che incontra i primi uomini), il romanzo che la contiene è evocato a sua volta nella cronaca delle ultime ore dal personaggio Pasolini, raccontate dall’omaggio d’autore di Ferrara che le contiene tutte e in esse tenta di immergere lo spettatore fino a spiazzarlo.

Eccezionale Dafoe in un’interpretazione che non può prescindere da un lavoro maniacale sul materiale di repertorio, rispettoso dei gesti, della psicologia e della vitalità, tragica e insopprimibile, dell’uomo Pasolini. Altrettanto importante nella versione italiana il doppiaggio di Gifuni, il che non stupisce, dopo averlo visto portare splendidamente a teatro la storia di Pasolini nel suo eccellente “na’ specie de cadavere lunghissimo”. Il delitto in sé, nei suoi aspetti strettamente politici e criminologici, viene evocato e raccontato, ma non indagato, se non a un livello più alto, quello in cui il tema reale della pellicola diventa lo spegnersi di una voce, della sua incontenibile unicità e del suo genio. Ci piace pensare che a Pasolini il film sarebbe piaciuto, ma dubitiamo che stimolerà la curiosità in chi non abbia alcuna familiarità con l’opera e il pensiero del poeta. Di certo è piaciuto a noi che di quella voce spenta prima che nascessimo, oggi più che mai, ci sentiamo tragicamente orfani.

di Daniele Trovato Twitter: @aramcheck76

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