Schiavi moderni
Cosa vi fa venire in mente il termine “schiavitù”? Se la risposta è navi che attraversano l’Atlantico, catene e campi di cotone, siete fuori strada. Sebbene sia stata abolita formalmente due secoli fa, infatti, ci sono ancora quasi trenta milioni di schiavi nel mondo. E l’Italia è indifferente.
A dirlo è il primo rapporto Greta, l’organismo del Consiglio europeo per la lotta al traffico di esseri umani, che ha sonoramente bocciato il Belpaese per un’insufficiente capacità d’azione dell’arginare il fenomeno. L’Italia, infatti, complici leggi inefficaci e la lunghezza della giustizia, non riesce a svolgere un’efficace azione di contrasto al traffico di esseri umani, «non ha un piano d’azione nazionale sulla tratta […], né si è dotata di molti degli strumenti di cui si sono dotati altri Stati che sono, come l’Italia, Paesi di arrivo e transito di vittime del traffico». I «dati forniti non rivelano la vera ampiezza del fenomeno» del commercio di esseri umani perché non ci sono meccanismi adeguati a individuare le vittime e per raccogliere i dati si presta «insufficiente attenzione alle tratte che non hanno come scopo lo sfruttamento sessuale». Sebbene lo sfruttamento sessuale sia il core business del traffico di esseri umani – con un gettito di 99 miliardi di dollari l’anno – i nuovi schiavi non sono solo quelli trattati alla stregua di oggetti sessuali, e la tratta non riguarda solo le “bianche” o i bambini. Le stime delle diverse organizzazioni internazionali (Ilo, Walk Free), sebbene non convergano, delineano un fenomeno che riguarda tra i venti e i trenta milioni di individui, venduti come oggetti e spremuti – per pochi spicci o senza alcuna retribuzione – da un padrone di cui sono alla completa mercé.
Obbligati a lavorare, sottoposti a violenza fisica e psicologica, posseduti e trattati come merce, disumanizzati e privati della propria libertà: anche se pensiamo che i mercati degli schiavi siano tristi ricordi del passato ormai consegnati alla Storia, la nuova schiavitù somiglia drammaticamente a quella che studiamo sui libri di scuola. Ma come si finisce “in catene” nel ventunesimo secolo? Spesso, per debiti (bonded labour o debt bondage): per necessità o per inganno, molte persone – soprattutto nel sudest asiatico – chiedono prestiti, per restituire i quali dovranno lavorare tutta la vita accontentandosi di un tozzo di pane e di un misero alloggio. Tutta la vita, però, potrebbe non bastare: in molti casi, a causa degli interessi è impossibile estinguere i debiti contratti, che passano automaticamente, assieme alla «schiavitù del debito», ai figli. I bambini schiavi in tutto il mondo sono oltre cinque milioni, costretti ai lavori forzati o sottoposti ai traffici più aberranti. Alcuni “nascono” schiavi, perché ereditano il debito dei padri o perché appartengono a classi o gruppi sociali che la società ritiene di poter sfruttare (descent based slavery). Donne e ragazze, spesso giovanissime, non sono sfruttate soltanto come prostitute agli angoli delle nostre strade, ma anche come mogli devote in focolai pieni di violenza che non hanno alcuna possibilità di lasciare: il fenomeno dei matrimoni forzati – che affonda le radici nella povertà, nelle tradizioni e nell’ignoranza della legge, secondo l’Ocse – sta assumendo dimensioni preoccupanti.
Non si può parlare di un’unica forma di schiavitù, spesso tutti questi elementi sono coinvolti nello schiavismo contemporaneo, che coinvolge persone di ogni età, genere e nazionalità, trasportati dai un’area all’altra del globo dai trafficanti dei nostri giorni e obbligati a fare i più disparati lavori. Non solo sesso, quindi. Nel caso particolare dell’Italia, la connotazione di genere attribuita alla schiavitù, che riduce il fenomeno al mero sfruttamento sessuale, lascia fuori dal radar delle autorità gli schiavi dal caporalato agricolo – di cui ci ricordiamo solo quando gli immigrati di Rosarno si rivoltano per spezzare le catene – le badanti, le collaboratrici domestiche e i minori avviati all’accattonaggio. Le oltre quattromila persone assistite, quindi, sono solo la punta di un iceberg di chissà quanti schiavi moderni abbandonati all’oblio.