#NotInMyName, non in nome dell’Islam
«Uccidete i miscredenti in qualunque modo. Conquisteremo la vostra Roma, schiavizzeremo le vostre donne». Così ha incitato i suoi il portavoce dello Stato Islamico, Abu Muhammed al Adnani, con un video-messaggio diffuso in più lingue e individuato dal gruppo di monitoraggio Site. Ma qualcuno grida la sua indignazione, e quel qualcuno è musulmano.
Ora che la situazione in Iraq e in Siria è così cruenta e pericolosa da meritare di tornare alla ribalta dei media nazionali, il pubblico si trova a fare i conti con un grumo di inaudita e incomprensibile violenza, sedimentatasi in popoli pressoché sconosciuti, e le reazioni sono più che prevedibili: paura e rabbia. La diffusione dell’ultimo messaggio che Abu Muhammed al Adnani ha rivolto ai jihadisti e al mondo intero ha provocato (al di là dell’ironia su come, fra traffico in tangenziale e disservizi Atac, sia davvero arduo penetrare a Roma) un odio generalizzato per qualunque musulmano, reo di essere malvagio per natura. Del tutto dimentichi che questo incitamento a uccidere nel nome di Allah non si discosta un granché dal motto dei crociati cristiani, che attaccavano al grido di «Dio lo vuole».
L’allarme jihad è certo preoccupante e forse senza precedenti e lo Stato Islamico è pronto ad allargare le sue schiere oltre Iraq e Siria ma confondere tutto questo per guerra di religione, oggi come in passato, è errore da orbi. Quasi mai è un credo o un’idea ad armare un braccio, più spesso sono la rabbia e la fame. Stratificazioni di storie economiche e sociali, insieme a enormi latenze culturali, hanno fatto sì che crescessero eserciti di fanatici pronti a tutto, e poco conta in questa storia essere musulmani, cristiani o ebrei. Nelle parole con cui Abu Muhammed al Adnani nel suo video-messaggio fa riferimento a Barack Obama è chiaro che i cosiddetti fanatici religiosi si preoccupano più che altro di politica e di eserciti: «Come fai a non capire, o ciuco degli ebrei, che la situazione non può essere risolta con i bombardamenti dall’alto, con una guerra su commissione, o pensi di essere più furbo di Bush? No, tu sei solo più pazzo di lui. Quattro anni fa avevi annunciato il ritiro delle tue truppe dall’Iraq. Noi non ci avevamo creduto e abbiamo avuto ragione. Ora i tuoi uomini saranno costretti a tornare, torneranno e i loro alleati sul campo non gli saranno d’aiuto, non più».
Poiché l’Islam è diventato il prestanome di questa guerra, a mobilitarsi contro le violenze dell’Isis sono proprio i musulmani che da tutta Europa si stanno facendo sentire per condannare lo stato Islamico, colpevole di usare il nome della propria religione violandone i principi di fondo. L’associazione britannica Active Change ha lanciato la campagna online #NotInMyName. Il messaggio è chiaro: state uccidendo ma non nel nostro nome, né in quello dell’Islam. In moltissimi hanno risposto all’appello, mettendoci la faccia. «I giovani musulmani britannici sono stanchi della propaganda piena di odio dei terroristi dell’Isis e della produttività dei loro supporter sui social media», ha raccontato il fondatore di Active Change, Hanif Qadir. Le manifestazioni sono anche offline e domenica scorsa i musulmani di Milano si sono dati appuntamento per una fiaccolata per la pace. Chaimaa Fatihi, responsabile delle Pubbliche Relazioni dei Giovani Musulmani d’Italia, ha invitato a partecipare gli islamici con parole inequivocabili: «Dovete esserci perché è la nostra causa».