Volevo solo essere chiamato Antonio

Integrazione non significa assimilazione: l’unica prospettiva possibile di convivenza è il confronto consapevole, estraneo a qualsiasi dinamica di sopraffazione. Siamo tutti, prima di tutto ed allo stesso modo, individui unici e differenti. Una lotta al razzismo coerente con questo presupposto non nega le differenze, ma ne promuove l’interazione. 

Mentre la pressione sociale aumenta, gli spazi di interazione si riducono; inizia a scomparire la libertà di espressione e la capacità di comprensione, in silenzio, muore. Resistere a questa involuzione culturale e politica, che giustifica la degradante guerra fra poveri e la discriminazione razziale e culturale come valvole di sfogo di una crisi di ben diversa origine, diventa indispensabile per garantire il benessere e la coesione della società contemporanea. Il dialogo che per gli integralisti rappresenta una sconfitta ed una rinuncia, per coloro che vogliono essere attori di una società evoluta e pacifica è invece uno strumento di emancipazione ed un’occasione di arricchimento. Le seconde generazioni rappresentano in carne ed ossa questa opportunità.
Antonio Dikele Distefano, in arte Antonio Iam Nashy Distefano è uno di loro. Ventidue anni, nato in Italia da genitori angolani, una marcia in più. A giugno ha presentato il suo primo libro che in questi giorni ha raggiunto oltre 6000 download : “Fuori Piove. Dentro pure. Passo a prenderti?”. Racconti brevi che parlano di un amore contrastato, dove la quotidianità fa i conti con le barriere imposte dalla discriminazione. 
Sulla sua pagina Facebook, frequentatissima da adolescenti ed adulti, ha riunito una sorta di comunità multiculturale dove si intrecciano vissuti personali, cronaca e storia. Si dibatte di sentimenti, linguaggio e senso di appartenenza; non sono tutti d’accordo, ma nessuno rinuncia ad esprimersi. C’è chi dice che dovrebbe schierarsi, fare lo scrittore sentimentale o lo scrittore di protesta. Ma la sua forza è proprio quella di coniugare rabbia e umanità. I suoi messaggi, come le sue riflessioni e provocazioni di “afro-italiano”, sono aperti a tutti.
Antonio, non hai scritto questo libro solo per raccontare la tua storia d’amore. Cosa c’è di più?
Quando ero piccolo, mi guardavo attorno e notavo che le minoranze non facevano nulla per guadagnarsi veramente un posto nella società, se non provare disperatamente ad integrarsi. Il mio sogno è sempre stato quello di andare a vivere in un paese dove le persone mi giudicassero prima di tutto come individuo.
Ho scritto questo libro perché volevo raccontare come si vive e cosa si prova quando si sta “dall’altra parte”, che il razzismo quello vero non è bianco o nero – questa è la semplificazione che ci impongono la società, il perbenismo, gli “anti razzisti” – , che le nostre storie si somigliano; che dobbiamo prima di tutto cambiare noi stessi, essere prima un esempio, per poi cambiare il mondo.  
<<Essere negro non è facile in una società dove i bianchi distribuiscono la libertà (…)>>, hai scritto on-line. Questo accade in un Paese europeo come l’Italia, ma anche nell’ Africa stessa, dove colonizzazione ed imperialismo hanno plasmato il destino dei popoli indigeni secondo i propri calcoli ed interessi.  Vista con obiettività, l’immigrazione di massa verso l’occidente è la conseguenza logica di un sistema economico sbilanciato che consuma risorse e concentra ricchezze, condannando alla povertà un’ enorme fetta della popolazione mondiale. Come rispondi a quelli che dicono <<perché non restate a casa vostra>>? 
Le persone che scappano dalla guerra non necessariamente vogliono rimanere a vivere in Italia, proprio come molti italiani che sognano un lavoro all’estero.
Gli uomini che comandano questo mondo hanno disegnato delle linee immaginarie. La maggior parte delle persone che utilizza espressioni come <<statevene a casa vostra>> non conosce la storia, non sa che il cuore del mondo risiede proprio nei Paesi poveri di infrastrutture, ma ricchi di materie prime.
L’Angola è il Paese africano con più immigrati: tra questi molti sono Italiani che vanno lì, non pagano le tasse e non rispettano l’ambiente. Credo che il male più grande sia la non-istruzione; perché sia io che tu potevamo nascere ovunque, perché bisogna immedesimarsi nel prossimo senza giudicare.  L’istruzione e la conoscenza sono una forma di riscatto.
Come volevasi dimostrare, anche i “bianchi” sono vittime di una dominazione culturale difficile da spezzare. Siamo molto meno liberi di quanto pensiamo. E non siamo neanche più capaci di utilizzare gli strumenti privilegiati che avremmo a disposizione: oggi, l’istruzione e la comunicazione soccombono ai pregiudizi.  In Italia oramai l’odio si va sostituendo alla comprensione. Il razzismo non ci divide solo dagli altri popoli, ci divide anche fra di noi. Tu hai scritto <<Dobbiamo essere più solidali, solo gli africani possono ridare dignità all’Africa, nessun altro lo farà per noi(…)>>.  Da afro-italiano, è incoraggiamento o un rimprovero che rivolgeresti  anche agli italiani?
L’ Italia è strana. Si giustificano i razzisti che straparlano quando si verificano casi come quello di Kabobo, mentre si dimenticano uomini come mio padre che hanno pagato per trenta anni le tasse a questo Stato e sono ancora considerati cittadini di serie B. Vedo leghisti dichiarati che elogiano Falcone nel giorno dell’ anniversario della strage di Capaci, e poi condividono fieri link con su scritto <<L’ Italia è solo il nord>>. Rimprovero soprattutto la poca memoria, questo è un paese fantastico lasciato in mano alle mafie.
Siamo convinti che la tecnologia porti le soluzioni, mentre porta niente altro che comodità.
Si guarda troppo la Tv qui, e si parla poco con le persone. Gli italiani aspettano sempre che sia un Renzi o un Berlusconi a risolvere le cose e spesso si scordano che il potere delle persone è più forte delle persone al potere.
Il discorso dell’Africa è diverso. Noi non abbiamo scritto la nostra storia, le nostre leggi: ci hanno sempre detto che per integrarci nella società dovevamo stare buoni e lavorare, quando poi negli Stati Uniti tanti Ebrei, Italiani, Irlandesi venivano accettati perché avevano creato gruppi di potere con cui bisognava scendere a compromessi.
Avverti più difficoltà ed ostilità nel rapporto le istituzioni, o con i concittadini?
Come tutti – credo -, con le istituzioni. Essendo un tipo solitario evito troppi contatti con persone che non conosco, proprio per non cadere sui soliti argomenti. Quando mi dicono <<Le cose in Italia stanno cambiando, non c’è più l’ignoranza di una volta>> non mi accorgo di questo cambiamento, penso piuttosto ai vari Tavecchio e Salvini.
Quali sono gli ostacoli più assurdi che incontri nella quotidianità, a causa del colore della tua pelle?  
Nessun ostacolo. Quand’ero più piccolo ne incontravo tanti, ora invece me ne frego. Ammetto che mi danno più fastidio tanti che si definiscono “anti-razzisti” di quelli che invece discriminano apertamente. Spesso mi arrivano messaggi tipo << Io sono stata con un ragazzo nero ed era proprio come te>>;  <<Io vi ho sempre visti come ragazzi fedeli, buoni e sinceri, ma poi mi sono fidanzata con un ragazzo nigeriano e ho capito che sbagliavo>>; <<Vorrei essere come voi che siete buoni>>; <<Ho tanti amici di colore>>. Parlano come se fossimo degli animali fedeli, come se non avessimo un carattere, un personalità individuale. Sono cose che mi fanno rabbia, soprattutto quando queste persone parlano a nostro nome nei convegni, ai festival o su Facebook; è assurdo.
In questi mesi sei stato in giro a presentare il tuo lavoro, hai conosciuto persone e atmosfere diverse. La città più accogliente? Quella più diffidente?
Napoli è fantastica. Mi sono innamorato del fatto che è una città in salita e piena di strade strette abitata da gente estroversa. Molti mi chiamavano <<fratello>>. La città più diffidente, Mantova: sono stato ospite al Festival della Letteratura dove anche se avevo il pass tutti mi guardavano storto, avevano paura, come se non avessero mai visto un ragazzo nero che parla italiano e che scrive libri, erano stupiti. Ho riso parecchio. 
So che vuoi portare avanti Primavera araba, il progetto musicale che hai introdotto finora in numerose scuole insieme al tuo amico Nizar Gallala. Cosa immaginavi di “insegnare” quando hai iniziato? Pensi di esserci riuscito? E cosa hai imparato?
Ci siamo riusciti ! Tantissimi ragazzi finite le lezioni ci ringraziavano, molti hanno cambiato idea. Io voglio combattere il razzismo istituzionale, i luoghi comuni: nelle scuole proviamo a fare questo, raccontiamo storie di uomini che non vengono mai citati nelle classi, lavoriamo sugli affetti, sul fatto che nessuno è solo è che nessuno è perfetto. Da grande vorrei fare questo: girare il mondo raccontando storie . 
A quando il prossimo libro?
Ho iniziato a scriverlo a Napoli durante il tour e ora sono arrivato a pagina quaranta. Ho preso una pausa perché voglio riflettere e credo che incontrare persone e viaggiare mi possa servire. Sto leggendo molto, mi sento migliorato. Credo che uscirà tra due anni, non lo so. Per ora mi godo questo.

Twitter: @AriannaFraccon

Foto: Bianca Venturelli

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