Cile 1973: l’altro 11 settembre

Ventotto anni prima che due Boeing si schiantassero contro le torri gemelle di New York, causando migliaia di vittime, l’11 settembre del 1973 un altro episodio sconvolse per sempre la storia dell’America, anche se si trattava dell’America Latina e in questo caso i gli attentatori erano spalleggiati proprio dagli statunitensi.

L’11 settembre di 41 anni fa il generale Augusto Pinochet, sostenuto dall’intelligence USA, spazzò via con un golpe militare il governo del presidente socialista Salvador Allende, eletto nel 1970 come candidato della coalizione Union Popular, lontano dagli interessi geopolitici degli Stati Uniti. {ads1}

“Non permetteremo che il Cile finisca nel canale di scolo” sono le parole che l’allora segretario di stato Henry Kissinger rivolse al direttore della Cia Richard Helms: è il 12 settembre 1970. Pochi giorni dopo il presidente americano Richard Nixon ordina il sabotaggio economico del Cile, per abbattere il neonato governo socialista.

I gruppi industriali vengono fortemente danneggiati, i trasporti entrano in una fase di scioperi che paralizzerà il paese, il credito estero viene sostanzialmente negato. Gli unici investimenti che gli Stati Uniti continuano a sostenere sono destinati all’addestramento delle forze armate cilene nelle scuole nordamericane. Ciononostante Allende riesce comunque a nazionalizzare il rame, una delle materie prime strutturali dell’economia cilena, ma non a impedire l’aggravarsi della crisi.

Asserragliato dentro il palazzo della Moneda Allende preferì il suicidio alla cattura da parte dei golpisti e affidò le sue ultime parole a un comunicato radio: “Altri uomini supereranno questo momento grigio e amaro in cui il tradimento pretende di imporsi. Sappiate che, più prima che poi, si apriranno di nuovo i grandi viali per i quali passerà l’uomo libero, per costruire una società migliore.”

A distanza di tanti anni i conti da fare sono ancora molti. Quasi ogni paese sud-americano vanta la sua dittatura o reazione autoritaria incoraggiata dalle “forze democratiche” del libero mercato nella seconda metà del Novecento; e in molti casi continua a pagarne i costi: nel caso del Cile 3.200 morti e oltre 38.000 detenuti e torturati; la costruzione di una gerarchia “fascistissima” tra polizia segreta e apparati statali, i cui eredi sono ancora in circolazione; la distruzione del settore produttivo statale in luogo della privatizzazione selvaggia; l’abbattimento dello stato sociale. Una gabbia inossidabile, che ancora attanaglia il paese nonostante gli anni della concertación e del ritorno alla democrazia di stampo sociale.

Viva il Cile! Viva il popolo! Viva i lavoratori! […] ho la certezza che il mio sacrificio non sarà vano, ho la certezza che, per lo meno, ci sarà una lezione morale che castigherà la vigliaccheria, la codardia e il tradimento. Diceva Allende prima di morire. E forse quei paesi, Cile compreso, che oggi si affacciano al XXI secolo spinti dal vento di una nuova solidarietà (e che resistono alle ingerenze esterne come nel caso venezuelano), sono mossi dalle sue stesse speranze. Perché i sogni non si ammazzano mai, e magari un giorno riusciremo a passeggiare tra quei viali di uomini liberi sui quali anche Salvador avrebbe voluto camminare.

Viva il Cile! Viva il popolo, viva i lavoratori!

@aurelio_lentini

Approfondimenti:
L’ultimo discorso di Salvador Allende riportato dal sito dell’ANPI
Il racconto che Gabriel Garcia Marquez volle dedicare alla morte di Allende
Articolo di Geraldina Collotti su Il Manifesto

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *