Cinema: One on one di Kim Ki-Duk

 È oscuro il senso dell’ultima pellicola del regista coreano presentata al festival di Venezia. Una spirale di immagini violente, difficile da narrare, schianta la sensibilità dello spettatore che, intrappolato in questa cruente sequenza, fatica a trovare spunti per una personale riflessione.

Prima di approdare al cinema Kim Ki-duk compie un percorso esistenziale travagliato. La sua arte si svela lentamente; dopo aver completato il ciclo di studi obbligatorio, causa le ristrettezze economiche della sua famiglia, è costretto, per mantenersi, a lavorare in fabbrica come operaio. Dopo essersi arruolato per cinque anni in marina, colpito da una crisi religiosa, sembra chiamato a un destino di predicatore quando improvvisamente il suo animo inquieto decide di fargli abbandonare la Corea per la volta di Parigi. In Europa scopre la pittura che sebben non diverrà il suo mestiere definitivo influirà notevolmente sull’estetica dei suoi lavori cinematografici. 

One on one è il titolo dell’ultima sua fatica; titolo che nella musicale traduzione inglese perde la drammaticità interrogativa della lingua originale (Chi sono io? tuona in coreano). In una trama non particolarmente intricata sfilano gli attori di quella che a ragione può essere considerata come una sorta di rappresentazione dell’odio inconsumato e represso che giace silenzioso nel cuore dell’uomo e che molto spesso in nome di un senso di giustizia del tutto presunto si traduce in vendetta; è un film sulla tendenza quasi inestirpabile di far seguire ad abusi e soprusi reazioni altrettanto spietate confermando senza arrestare la corsa inesorabile della violenza.

L’opera si apre con l’omicidio brutale di una giovane liceale, una sorta di prologo su cui si salda con sapienza registica (è questo uno dei pregi del film) la contrapposizione tra un gruppo di ‘umiliati e offesi‘ capeggiati da una burbera figura e gli esecutori e i mandanti dell’atroce delitto. Quest’ultimi dopo essere stati portati uno per uno in un luogo segreto, in seguito alle più atroci torture, vengono costretti a confessare la loro colpa per iscritto segnandola con la loro stessa impronta di sangue come a sigillarne l’autenticità. Se in un primo momento questo manipolo di improvvisati giustizieri pare riscattarsi dalle vessazioni a cui sono esposti durante le loro tristi ed insensate giornate poco a poco i loro nervi cedono di fronte alla furia incontenibile del loro superiore che sfoga la sua rabbia portando all’estremo le sue modalità di tortura. Alcuni, tra cui è presente anche una donna, abbandonano l’impresa, lasciando la loro guida in balia dei suoi tormenti interiori.

Nel film non viene svelato il movente dell’omicidio; l’irrisolto domina sopra un’estetica della violenza portata agli eccessi e incapace di procurare la tanto attesa catarsi. L’audacia di questo artista tanto originale questa volta non è bastata e il suo consueto «tentativo di comprendere l’incomprensibile» è rimasto solo un ombroso tentativo.

@alberodanzate

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