Usa, le donne contro le donne
Dimenticate le lotte, le rivendicazioni, i successi e le sconfitte. Le donne – alcune, almeno – il femminismo non lo vogliono più, e rivendicano con orgoglio questa scelta. Dove? Su Twitter, ovviamente, dove la battaglia finale tra #womenagaistfeminism e le femministe indignate si combatte a colpi di hashtag e stereotipi.
Un tumblr, centinaia di migliaia di tweet, una pagina Facebook che in poche ore ha superato i diecimila like. Le antifemministe d’oltreoceano hanno invaso la rete per spiegare perché, loro, del femminismo non hanno più bisogno. Tanto è bastato per scatenare la reazione sdegnata delle donne pro feminism. Da entrambe le parti della barricata, però, i cliché si sono sprecati. Se le ragazze – spesso giovanissime – che rifiutano il femminismo sembrano non comprenderlo fino in fondo, le femministe non riescono a non ricadere nel vittimismo e bollano queste donne come “ignoranti” o “deficienti”. Il messaggio di fondo delle foto postate con l’hashtag #whyidontneedfeminism è chiaro: il femminismo mette le donne contro gli uomini, chiede privilegi ingiusti, è prevaricazione. Per queste ragazze la guerra dei sessi non esiste, ma non esistono nemmeno disparità, disuguaglianza, sessismo, né sembrano avere una qualche importanza le lotte per l’aborto, per il divorzio, per i diritti e l’uguaglianza. Che volete, alla loro nascita i diritti erano lì, sono circondate da uomini che le “trattano bene” e non sembra interessarle se effettivamente uomini e donne occupino le stesse posizioni nella società. {ads1} Per loro il femminismo è solo anatemi e bigottismo, la pretesa di dire alle donne come devono vivere, e colpevolizzazione e bullismo nei confronti di chi non si adegua alla norma. Sono stanche di quello che il femminismo sembra essere diventato ai loro occhi, una serie di imposizioni morali, un credo che richiede adesione, pena lo stigma e il linciaggio. Diritti? Gender gap? Non interessano. I temi al centro del dibattito sono altri: “Io voglio che gli uomini mi guardino”, “voglio cucinare la cena al mio ragazzo quando torna”, “il femminismo denigra il mio sogno di essere un’amorevole e leale moglie casalinga”. Ma, soprattutto, “io non sono una vittima“. E come reagiscono le femministe? Liquidando questa insofferenza – che si può non condividere, nel merito come nei toni, ma esiste e va compresa – come ignoranza e ingratitudine. E quindi via con riflessioni sulla “tendenza ancillare” e sulla “sottomissione” di queste “figlie del patriarcato” che dovrebbero solo essere riconoscenti nei confronti di chi ha permesso loro di avere la libertà di andare su Twitter a sputare sentenze.
Invece di riflettere su cosa è stato sbagliato (e qualcosa, di sicuro, hai sbagliato se centinaia di donne si prendono la briga postare foto su Internet solo per dirti che non hanno più bisogno di te), è tutto un fiorire di post autoassolutori in cui si ricordano i debiti storici nei confronti del femminismo e di accuse contro chi ne celebra il funerale. La mancanza di consapevolezza di chi riduce il femminismo a vittimismo e prevaricazione non può essere letta come mera idiozia ma richiede un approfondimento sul perché un movimento con una storia di lotte e conquiste alle spalle sia visto solo come un ricettacolo di megere acide pronte a scagliarsi sugli uomini o su chi indossa un abito scollato. Troppe femministe, però, senza mettersi minimamente in discussione, si sono precipitate alla tastiera solo per delegittimare queste ragazze che, povere loro, non capiscono e non sanno che, del femminismo, avranno bisogno. E perché non capiscono? È chiaro, perché ora sono giovani e belle. A dirlo Laurie Penny, editorialista del New Statement, in in un’emblematica lettera aperta in cui – involontariamente – rispolvera addirittura lo stereotipo classico che vuole le femministe tutte brutte, pelose e coi capelli corti (magari pure un po’ lesbiche). Quasi che il femminismo fosse l’ultimo approdo di chi è rifiutato dalla società e non un movimento che ha sempre lottato per l’autodeterminazione delle donne. La Penny, nella sua magnanimità, concede a queste povere ingenue di dire quello che pensano, salvo commentare ogni parola con toni sprezzanti e enfatizzare a più riprese una colpa gravissima delle antifemministe: le scritte incriminate le feriscono addirittura il cervello, perché sono rosa e, udite udite, “curly“. Gli amanti degli stereotipi ringraziano.
Se il femminismo non riuscirà a modificare il proprio linguaggio e a comunicare diversamente, allora davvero sarà finito. La sua battaglia, però, non è ancora vinta come affermano in molte su Twitter. Il cammino per l’uguaglianza reale e, per il diritto all’autodeterminazione, è ancora lungo. E noi in Italia, così lontani da questo dibattito tra donne, ne sappiamo qualcosa. Basta vedere i tentativi di snaturare la legge sull’aborto, il recente dibattito sull’eterologa, le obiezioni fantasiose di chi si oppone addirittura ad una legge che – sacrilegio! – permetterebbe di non dare al figlio il cognome paterno. Insomma, il femminismo servirà ancora, ma solo se ascolterà le donne – tutte le donne – e ridarà loro la voce, smettendo di parlare per loro sindacando su cosa devono pensare o su come devono vivere. È un dibattito importante, e urgente, che forse meriterebbe ben più di un hashtag e scambi di accuse via social.