Carceri: Strasburgo condanna di nuovo l’Italia

“Gli agenti della Polizia Penitenziaria, colpevoli degli atti di violenza avvenuti nel carcere di San Sebastiano di Sassari il 3 aprile del 2000, non hanno ricevuto pene proporzionali al reato commesso”. Così si è pronunciata la Corte di Strasburgo lo scorso 2 luglio, che ancora una volta ha condannato l’Italia per aver violato l’articolo 3 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, che sancisce: “Nessuno può essere sottoposto a tortura, né a pene o trattamenti inumani o degradanti”.

Secondo la Sentenza della Corte, lo Stato italiano dovrà corrispondere al detenuto Valentino Saba, vittima insieme a un’altra trentina di detenuti delle violenze inflitte da parte di alcune delle guardie carcerarie in servizio nel penitenziario sardo, un risarcimento pari a 15.000 euro per danni morali.
La condanna si riferisce agli avvenimenti che ebbero luogo nella primavera del 2000 all’interno dell’istituto penitenziario sardo, dove nel corso del trasferimento di alcuni detenuti in altre strutture della zona per motivi di sovraffollamento, avvennero diversi episodi di violenza. Circa trenta detenuti vennero brutalmente picchiati dagli agenti della Polizia Penitenziaria in servizio nell’Istituto. Gli abusi furono la risposta repressiva a una protesta dei detenuti avvenuta pochi giorni prima, durante la quale si misero a “martellare” con le posate sulle grate, mandarono a fuoco le lenzuola e fecero esplodere le bombolette di gas perché, a causa dello sciopero dei direttori delle carceri, erano stati lasciati senza “sopravvitto” e sigarette.

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Valentino Saba denunciò l’accaduto e successivamente decise di presentare un esposto alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo di Strasburgo chiedendo di essere risarcito con 100mila euro per aver subito violenze ed umiliazioni. La Corte Europea non ha, però, potuto riconoscere il reato di tortura, non essendo presente nel codice penale italiano, quindi ha punito lo Stato Italiano esclusivamente per aver inflitto trattamenti “inumani e degradanti” arrecando danni morali al detenuto in questione.
Nel condannare l’Italia la Corte di Strasburgo ha colto la palla al balzo per denunciare i tempi lenti del processo avviato dopo la denuncia e per sottolineare che molti dei colpevoli sono stati prosciolti per prescrizione dei reati commessi. Coloro che invece sono stati condannati hanno ricevuto pene non proporzionate ai fatti per cui erano stato incriminati. Uno degli agenti giudicato colpevole di non aver denunciato le violenze dei colleghi era stato condannato al pagamento di una multa di 100 euro.
Viene però naturale pensare che la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo esiste da più di 50 anni, e l’Italia è stata condannata più volte solo negli ultimi anni, per violazione dell’articolo 3 che proibisce la tortura, i trattamenti e le pene inumane e degradanti, articolo fondamentale, messo a protezione di un diritto assoluto e che sancisce un divieto inderogabile, privo di eccezioni. Dopo il caso di Dimitri Alberti, per il quale la Corte ha condannato l’Italia (a risarcire il detenuto con 15000 euro) pochi giorni addietro, ecco che nemmeno una settimana dopo arriva una nuova condanna, legata sempre a violenze subite da qualcuno in custodia delle forze dell’ordine. Come mai tutte queste condanne in così poco tempo? Non di certo perché il nostro Paese si sia messo improvvisamente a violare l’articolo 3 della Convenzione Europea. Forse, in maniera più verosimile, perché la condanna “apripista” ha fatto conoscere ad avvocati e detenuti il sistema europeo di tutela dei diritti umani.

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