Professoressa Montalcini, una vita da Nobel
‘Una piccola signora dalla bontà indomita e dal piglio di principessa’. Azzeccatissime le parole di Primo Levi nel raccontare di lei, perchè appariva così in ogni sua manifestazione e qualvolta si presentava al grande pubblico.
Appariva così anche quando attraversava le stradine di Roma in punta di piedi, delicatissima, quasi a creare un paradosso tra la sua esile persona e quell’incontenibile conoscenza, che ha trasformato in sapere, destinata a capovolgere lo scorrere della Neurologia.
‘Affrontare la vita con totale disinteresse alla propria persona e con la massima attenzione al mondo che ci circonda’. Con questi presupposti la professoressa gentile vince nel 1986 il Premio Nobel per la Medicina grazie alla scoperta dell’NGF, quella proteina fondamentale in grado di dare tante risposte alle più gravi malattie del sistema nervoso e al grande mistero che circoscriveva il tumore. Solo così poteva creare quello scarto che producesse i presupposti di una conoscenza ancora caotica, attraversando indisturbata le complicatissime strade del cervello.
<<Perchè molti ignorano – diceva – che il nostro cervello è composto da due cervelli, l’uno arcaico che non si è evoluto, che non differisce molto dall’homo sapiens, e l’altro molto piccolo ma che possiede un forza straordinaria, quella di controllare tutte le nostre emozioni>>. E l’altro suo messaggio ricorrente era lì, in quelle parole che volevano ricordare quanto il nostro comportamento fosse guidato dal cervello arcaico e a che punto la storia ne fosse testimone diretta, <<perchè – diceva – le guerre, le stragi, i genocidi sono dovute alla prevalenza della componente emotiva su quella cognitiva>>. Tanto abile la prima da far credere che queste mostruosità siano crontrollate dal pensiero. Con quanta grazia si è rivolta ai giovani ripetutamente chiedendogli di pensare agli altri, di non soffermarsi sulla propria persona, fonte di ego, di pensare al futuro senza paura, distaccandosi quindi da se stessi.
Il premio Nobel è frutto di una ricerca che dura 50 anni, che attraversa la guerra e la persecuzione e che la costringe ad emigrare in Belgio ospite dell’Istituto di Neurologia dell’Università di Bruxelles. Poi Torino, dove fa della sua camera un laboratorio di ricerca. Segue Firenze, fino ad approdare negli Stati Uniti e ricevere nel 1987 per mano di Reagan l’onoreficenza più alta del mondo statunitense.
<<E quando muore il corpo – diceva – sopravvive quello che hai fatto, quello che hai dato>>.