Alla scoperta dei Kutso. Intervista a Matteo Gabbianelli

Kutso, una band che del pudore e del perbenismo se ne frega. Superando il trauma di dover pronunciare questa parola tanto frequentemente in un pomeriggio solo, ho incontrato Matteo Gabbianelli, voce della band, per un’intervista. Si scrive Kutso, si pronuncia cazzo.

A completare la formazione, Luca Amendola (basso), Donatello Giorgi (chitarra) e Alessandro Inolti (batteria). Una piacevole chiacchierata alla scoperta di una band sorprendente.

Fate un tipo di musica abbastanza insolito; se doveste inquadrarvi in un genere?
Più che un genere è un’intenzione rocambolesca, sorridente, casinara. Per me, rispecchia il nostro carattere e la nostra personalità. Facciamo questa musica perché ci piace il dinamismo, decontestualizzare, aggredire (positivamente) le persone.
Da cosa nasce l’idea dei costumi durante i live?
L’idea è nata nell’ottica di salire sul palco e fare quello che ci pare. Non abbiamo una divisa e non ci piace essere legati ad un modo di fare. Una volta, ad esempio, abbiamo fatto un concerto in pigiama. Donatello, il chitarrista, ha preso il compito di trovare i costumi. Ne porta uno nuovo per ogni concerto.
E il pubblico come reagisce?
Il pubblico si diverte. Stiamo iniziando a essere abbastanza esposti da essere soggetti a critiche. Come quelle positive, accettiamo anche le negative, che a volte sfruttiamo a nostro vantaggio. Tempo fa, ad esempio, abbiamo suonato in apertura ad un concerto di Bugo e uno spettatore ha iniziato a gridarci “vaffanculo”. Abbiamo risolto dicendo che noi eravamo i Kutso e che aveva sbagliato band.
Avevate previsto che un’idea provocatoria e originale avrebbe portato ai risultati che state ottenendo?
Sono sempre stato ambizioso nella vita, ho sempre voluto arrivare al massimo. Poi, sono il primo ad essere colpito quando vedo idee originali. Quando ti aspetti qualcosa e vedi altro, c’è sempre una reazione. A me piace creare la festa, per me il concerto è aggregazione, condividere un momento pieno di emotività, felicità. Mi piace il baccanale. Per le canzoni è diverso. Le scrivi per il piano espressivo. Metto su carta le mie sensazioni, esorcizzo i miei disagi. Sono molto riflessivo e cerebrale. Mi piace dire cose pesantissime con il sorriso, non un sorriso demenziale, ma di gioia e disperazione insieme. Nelle canzoni scrivo tutto quello che non faccio. Lo scrivo proprio per non farlo.
Cosa pensi del fenomeno Indie?
Se per Indie pensiamo a quelli con gli occhiali che dicono stronzate, penso sia solo una moda. A me piace il lavoro sull’armonia, le belle voci. L’indie è chiacchiere con una base elettro. A me non me ne frega un cazzo di queste cose. Non mi colpisce, testualmente non mi pare interessante. Se devo trovare forme espressive alte leggo un libro.
E delle major discografiche?
Per tanto tempo pensi che il tuo traguardo sarà avere una major alle spalle, poi ti accorgi che non è assolutamente così. Il mercato della musica a me non serve a niente; se spariscono non mi cambia la vita. Conta più il passaparola che avere un grande nome alle spalle, divulgare il proprio messaggio lavorando sul territorio, facendo concerti.

Alla fine dell’intervista, Matteo si improvvisa chitarrista e ci regala una cover (link video).
Il 21 dicembre, a Pomezia, il prossimo live. Sarà un live da fine del mondo e, se potete, andateci. Non si può morire senza Kutso.

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