La musica è noise, il resto è Jason Lescalleet

La-musica-è rumore-il-resto-è-Jason-Lescalleet-1-07-12-12Fin dall’antichità l’uomo ha vagato alla ricerca di una risposta all’unica, vera, fondamentale domanda: la musica elettronica rompe le palle o no? Lungi da me voler competere con millenni d’affannosa indagine: similmente ai miei antenati, ogni tanto mi limito a mettere molto pigramente il naso fuori dalla caverna (ho un’immagine del Neanderthal molto naif), per fiondarmi in un qualche locale dove si esibisce l’ennesimo artista planato dagli States con il suo bagaglio di novità e/o sperimentazioni nel campo della musica elettronica.

Insomma, abbandonare l’antro oscurantista delle nostre primitive abitudini per aprirsi alle ragioni della tecnologia e del progresso. Questo mi ripeto, sfidando il freddo e sentendomi molto stoico, dicendomi che in fondo musica elettronica significa tutto e niente, e forse è questo il motivo per cui mi piace poco o punto. C’è un confine però, molto labile, che riesco facilmente a individuare, e sul quale potrei dire si fonda tutta la mi sfiducia: quello oltre il quale l’elettronica perde la sua validità per così dire estetica in virtù di una sorta di sindrome da smanettone nerd – il momento in cui il musicista si eclissa per fare spazio all’ingegnere informatico.

Ecco, è indubbio che Jason Lescalleet appartenga a questa seconda categoria. Me ne rendo immediatamente conto guardando la sua vasta gamma di tecnologia portatile, convinto ci sia qualche filo fuori posto, qualche spina inserita male, perché l’accrocco emette un fischio – un fruscio, una vibrazione – che sa tanto di guasto, e invece no, è l’inizio del concerto. Il nostro che mette del suo, eh, collegando e scollegando, facendo su e giù con manopole e leve, allungando o ritraendo microfoni che sembrano onde in un mare di frequenze in tempesta, e devo ammettere che una parte dello show è indubbiamente coreografica. Per il resto, questa musica o la si ama o la si odia, c’è poco da fare: qualche timido accenno di melodia non compensa minuti e minuti di variazioni su quelle che ben difficilmente potrebbero essere chiamate note. Google mi viene in aiuto per definire il genere: noise. E credo calzi a pennello, visto che le infatuazioni sono quelle, molto più digitali che analogiche. Ma Jason sembra divertirsi parecchio, apparentemente incurante di quello che possa pensare il pubblico. E dopo un’ora e più, non nego di aver cominciato non dico ad apprezzare, ma quantomeno a comprendere. O forse era solo la birra.

 

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