Il decreto Poletti è legge, le novità sulla riforma del lavoro

Lo chiamavano Statuto dei lavoratori, se l’erano conquistato con anni di lotte di classe e morti ammazzati; lo chiamano oggi jobs act e lo stilano nel tepore delle stanze istituzionali.

Un’evoluzione semantica quanto sostanziale dei diritti del lavoratore dalla Fornero a Poletti in nome della flexibility e un’Italia che passa dal ’68 ad un trasformazione della contrattazione del lavoro che smantella il sistema di tutele.
Elsa Fornero ce l’ha insegnato: “Non siate choosy“, abituatevi al cambiamento, siate “open mind”, l’era del posto fisso e la villetta a schiera è finita, è tempo di mercati, è tempo di produttività, insomma è tempo di precariato. Così si è assistito alla liberalizzazione del licenziamento, allo svuotamento dell’articolo 18, all’eliminazione dell’obbligo di reintegro, a fronte di un mero risarcimento per chi ha perso il lavoro senza giusta causa o giustificato motivo ci si è dovuti confrontare con la mancanza di ammortizzatori sociali e persino con il fenomeno dilagante degli esodati. Ma d’altronde dai tecnici, da chi rappresenta “l’Italia Bene” ed impone sacrifici senza sapere cosa significa affrontarli, ce lo si poteva pure aspettare, dal Partito Democratico (che di rosso ormai ha solo la D) viceversa ci si aspettava qualcosa di meglio. E invece no. 

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Il decreto Poletti irrompe con il bene placet di Camera e Senato riformando le due tipologie contrattuali più vicine agli under 30: contratto a tempo determinato, contratto di somministrazione a tempo determinato e l’apprendistato.

Contratto a tempo determinato: il decreto, divenuto ormai legge, ha modificato il D. Lgs 368/2001 che regola il contratto a termine e per il quale si prevedeva sino ad oggi la durata massima di un anno del rapporto di lavoro. Il nuovo decreto innalza il termine (anche in somministrazione) a tre anni con la possibilità di rinnovare il contratto fino a 5 volte (nel testo originario si prevedevano 8 proroghe, la Fornero ne prevedeva solo una). Cede anche l’obbligo di indicazione di causale per la sua stipulazione, ciò significa che il datore di lavoro non dovrà specificare le motivazioni che lo portano a fissare un termine al rapporto. Tale possibilità laddove prima era prevista solo nei primi 12 mesi, oggi si estende a tutti e tre gli anni di durata del contratto a termine. Infine, viene inserito un “tetto” massimo all’utilizzo del CTD che non deve superare il 20% delle dipendenze (criterio più restrittivo rispetto alla proposta originaria che parlava di 20% dell’organico), pena una sanzione amministrativa per il datore di lavoro, anche questa introdotta a posteriori e non prevista nel testo originale del decreto.

Apprendistato: in modifica del D. Lgs 167/2011 si prevedono modalità semplificate di redazione del piano formativo individuale sulla base di moduli e formulari. Tuttavia, questione ben più seria riguarda la stabilizzazione degli apprendisti: cade infatti il divieto ex Fornero di non assumere nuovi apprendisti se non ne sono stati confermati almeno il 30% dei precedenti. Il decreto Poletti circoscrive tale divieto solo alle imprese con più di 50 dipendenti, riducendo la percentuale al 20% delle stabilizzazioni (nel testo originario, addirittura, gli obblighi di stabilizzazione scomparivano del tutto).

E’ evidente come il decreto cavalchi l’onda della flessibilità in nome della crescita occupazionale. Resta da chiedersi in che termini e a che prezzo questo risultato verrà raggiunto. Appare di fatto inutile, alla luce di un’analisi concreta della realtà, un aumento delle offerte di lavoro se a questo non corrisponde un’effettiva stabilizzazione del lavoratore e delle famiglie. Una riforma che prevede posti di lavoro precari, mal retribuiti, con contratti ad tempus che oggi possono rinnovarsi sino a 5 volte non può convincere e di fatto non garantisce agli under 30 una posizione lavorativa che sia in grado di assicurargli una progettualità di vita o anche solo una speranza di pensione.
Dati Isfol alla mano, i contratti della durata di un mese corrispondono al 43,5% sul totale, la quota degli avviamenti con contratto a tempo determinato è del 68,5%, mentre tra i 15 e i 24 anni la fetta di occupati precari corrisponde al 52,9%.
Senza cadere in una demonizzazione della classe imprenditoriale italiana, è evidente come di fatto il potere contrattuale in mano al giovane neo-assunto corrisponde pressoché al nulla, laddove al datore di lavoro è lasciata carta bianca. I diritti, le lotte, l’emancipazione del lavoratore e la sua dignità hanno subito uno svilimento senza precedenti. Considerato anche che il processo di precarizzazione italiana è stato 3 volte superiore rispetto a quello europeo, con un tasso di disoccupazione giovanile, tutto nostrano, al suo massimo storico del 42,5%, va constatato come a flessibilità non corrisponda necessariamente occupazione. Sarebbe il caso di dire al governo di Matteo Renzi che stavolta più che #cambiaverso si è di fronte al #contromano.

Fonti: IlFattoquotidiano; Reubblica, IlSole24ore.

Twitter: @FedericaGubinel

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