Sos razzismo: l’odio corre anche sul web
Il termine razzismo si riferisce ad un’idea preconcetta che la specie umana sia suddivisa in razze ben distinte, con diverse capacità intellettive, nonché la convinzione che ci sia una gerarchia, secondo cui una particolare razza possa essere definita superiore o inferiore a un’altra.
Nella Capitale il razzismo è qualcosa di noto, una componente stessa della città, figlia della convivenza multietnica che vivono i cittadini in quasi tutti i quartieri, in special modo quelli periferici. Una volta il “forestiero” era l’emigrante del sud Italia che arrivava a Roma in cerca di futuro, scendendo da un treno della stazione Termini con la sua valigia di cartone. Oggi il “forestiero” è il marocchino che apre una pizzeria al taglio, il cinese con il suo ristorante, l’indiano con i suoi internet point, il senegalese che vende le borse contraffatte fuori dai centri commerciali, la signora ucraina che fa la badante ai vecchietti; un tempo li si guardava con sospetto, adesso sono entrati a far parte della comunità, e la loro cultura, così diversa dalla nostra, non ci fa più paura, anzi, forse ci incuriosisce addirittura. Ma ce ne sono altri di “forestieri” che la comunità non tollera, che il cittadino non ha mai accettato, e che con molta probabilità non farà mai: i Rom. {ads1}
Leggende metropolitane li dipingono come ladri di bambini, dediti al borseggio sugli autobus di linea e perennemente alla ricerca di un turista da seguire e derubare. Effettivamente non si può negare il fatto che, chi vive a Roma, ha di certo assistito ad uno dei loro borseggi, o magari li ha visti zoppicare ad un semaforo rosso in cerca di monetine, per poi camminare miracolosamente in modo normale allo scattare del verde. Sappiamo bene che salgono sui mezzi pubblici, oltretutto senza biglietto, e tentano spesso di infilare le mani nelle tasche e nelle borse dei malcapitati in cerca di portafogli e cellulari. È ovvio che la loro presenza nella comunità sia vista, se non con odio, almeno con poca simpatia, soprattutto in quelle zone in cui hanno le loro sedi, quei campi rom sparsi un po’ ovunque che ultimamente stanno risvegliando l’odio razziale persino sul web.
In questi giorni infatti gli investigatori della Digos e della polizia postale stanno monitorando alcuni gruppi nati su Facebook, nonchè i suoi partecipanti, gruppi come “Sei di Monteverde se…”, al quale sono iscritte quasi duemila persone, e che ha per immagine quattro pistole e un teschio. Domenica scorsa, gli abitanti di questo popoloso quartiere si sono dati appuntamento in via Aurelia Antica 183, davanti a una delle entrate di Villa Pamphilj, incontro poi annullato in tarda serata a causa del maltempo, stufi del degrado in cui è sprofondato Monteverde “per colpa degli zingari” .Il fondatore del gruppo, Stefano Vitullo, dice sui giornali: “Io non sono razzista ma mi sento di difendere qualcosa di mio e capisco che chi utilizza termini forti, lo fa per rabbia”. Rabbia nei confronti delle istituzioni dicono, decisamente impassibili, e verso le forze dell’ordine che “fanno fare le foto nel parco ai bambini impressionati dai cavalli anziché fare il loro dovere”.
Di gruppi simili sul web ce ne sono diversi, come quello gemello “Sei di Magliana se…”, che ha in se gli stessi contenuti, come l’emergenza furti e rapine, che i residenti attribuiscono ai rom, e che effettivamente è un fenomeno che in molti hanno testimoniato.
La colpa, secondo i cittadini di questi quartieri, non è dei nomadi in se, ma di chi li mette in condizione di fare quello che fanno senza punirli. L’esasperazione della gente, dunque, viene dall’indifferenza di chi lascia i cittadini con i loro problemi, a sbrigarsela da soli, e li fa sentire autorizzati alla violenza. E arrivati a questo punto non ci si può stupire se, sulla porta d’ingresso di una panetteria nel quartiere Tuscolano, sbuca un cartello con sopra scritto “È severamente vietato l’ingresso agli zingari”, facendoci ritornare indietro nel tempo alle discriminazioni contro gli ebrei nella Germania nazista e a quelle dei neri, in Sudafrica, durante l’Apartheid. L’accaduto è stato denunciato dall’Associazione 21 luglio, che si è adoperata non solo a rimuoverlo, ma ha anche inviato una lettera al presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, per esprimere “profonda preoccupazione per il livello di conflittualità e ostilità che si registra nei confronti delle comunità rom e per l’emergenza democratica e civile che attraversa il nostro Paese”. L’Associazione ha ragione ha segnalare l’emergenza razzismo, nonché a rimuovere il cartello, ma ci si chiede se forse non sarebbe anche il caso che le autorità guardassero a questo fenomeno anche mettendosi nei panni dei cittadini, che si chiedessero il perché di tanto odio, odio certamente ripugnante, ma nato comunque da un disagio sociale che cresce sempre di più e potrebbe diventare incontrollabile. Finché si tratta di parole affidate ad un social network oppure ad un pezzo di carta appeso sulla vetrina di un negozio pensano che la situazione sia sotto controllo, ma cosa succederebbe se questa intolleranza passasse dalle parole ai fatti? Se diventasse quindi un pericolo sociale reale e non virtuale?