L’aborto: l’impossibilità di cancellare un diritto troppo spesso tacitamente ostacolato.
Oggi in Italia la donna può richiedere l’interruzione volontaria di gravidanza (IVG) entro i primi 90 giorni di gestazione per motivi di salute, economici, sociali o familiari. Dal 1978 questo intervento è regolamentato dalla Legge 194/78, che descrive con chiarezza le procedure da seguire in caso di richiesta di IVG:
- esame delle possibili soluzioni dei problemi proposti
- aiuto alla rimozione delle cause che porterebbero alla IVG
- certificazione
Questo quello che si legge sul sito del Ministero della Salute –http://www.salute.gov.it- dal quale si evince innegabilmente che l’aborto è un diritto validato da una legge. Ancora oggi questo diritto talvolta tende a vacillare sotto lo scacco degli obiettori di coscienza, di strutture sanitarie carenti e movimenti politici dissidenti. Infatti, dal 1978 ad oggi -ossia dalla conquista del diritto all’aborto- non sempre la Legge 194 ha trovato la sua piena e concreta applicazione, rendendo il diritto all’aborto un diritto a volte tradito.
Non bisogna andare troppo indietro nel tempo per trovare un lampante esempio di quanto il diritto all’aborto continui ad essere minato: il consiglio regionale delle Marche, guidato dal centrodestra, il 26 gennaio scorso ha respinto a maggioranza una mozione presentata da Manuela Bora (Pd) sull’applicazione della legge 194 e sul diritto di abortire. La mozione della consigliera del Pd nasceva dall’elevato numero di obiettori di coscienza, in contrasto con le linee guida del ministero della Salute, dato che le strutture che somministrano la pillola abortiva ad oggi sono tre: dislocate ad Urbino e San Benedetto del Tronto.
La consigliera, dopo aver incalzato l’assessora alle Pari Opportunità Giorgia Latini (Lega), da sempre contraria all’aborto, si è vista recapitare 1.450 pannolini, tanti quanti le interruzioni di gravidanza registrate in Regione nel 2019. La maggioranza di centrodestra alla guida della Regione resta quindi ferma sulle sue decisioni e non intende seguire le indicazioni del ministero. Per Carlo Ciccioli (il capogruppo di Fdi), le richieste della consigliera Pd sono “una battaglia di retroguardia che aveva un senso negli anni ’60. In questo momento di denatalità, la battaglia da fare oggi è per la natalità”.
A giugno scorso la giunta di centrodestra in Umbria aveva vietato l’aborto farmacologico in day hospital, tornando a rendere obbligatorio il ricovero di tre giorni. Decisione ben presto revisionata a causa delle proteste e della pubblicazione delle linee guida aggiornate del Ministero della Salute l’8 agosto, le quali prevedevano l’annullamento dell’obbligo di ricovero in ospedale, estendendo a nove settimane di età gestazionale la somministrazione del farmaco, e prevedendone la somministrazione in consultorio o in ambulatorio.
L’aborto farmacologico prevede l’assunzione di due farmaci a distanza di 48 ore uno dall’altro, il mifepristone combinato con il misoprostolo, ed è una pratica sicura come asserisce l’Organizzazione Mondiale della Sanità, che ha incluso i due farmaci abortivi nella lista delle medicine essenziali.
In Italia la possibilità di ricorrere all’aborto farmacologico venne introdotta nel 2009, in Francia nel 1988, nel 1991 in Gran Bretagna e nel 1992 in Svezia. Sin dal principio l’Italia dimostrò di essere un paese “resistente” all’idea dell’aborto farmacologico: il limite di tempo per l’assunzione dei farmaci abortivi ridotto (sette settimane) rispetto a quello indicato dal farmaco stesso e adottato dagli altri paesi d’Europa (nove settimane); e con una procedura che prevedeva il ricovero in ospedale di tre giorni.
Le limitazioni esistenti fino a quel momento non avevano ridotto il ricorso all’interruzione volontaria di gravidanza, ma avevano solo reso l’esperienza più invasiva e traumatica.
L’Italia rimane tutt’ora tra gli Stati europei dove l’aborto farmacologico è l’opzione meno attuata: 17,8% contro il 66% della Francia.
Il caso Ciccioli
Nelle Marche: su 137 ginecologi ospedalieri, 100 sono obiettori di coscienza.
Il capogruppo al consiglio regionale di Fratelli d’Italia Carlo Ciccioli a metà febbraio ha presentato una proposta di legge a “sostegno di famiglia, genitorialità e natalità, favorendo il lavoro anche all’interno delle strutture pubbliche delle associazioni antiabortiste. Ha fatto scalpore la dichiarazione di Ciccioli sulla cosiddetta famiglia naturale ed i ruoli al suo interno: “Non possono esistere alternative al nucleo familiare naturale, composto da un padre, da una madre e dai figli che hanno il diritto ad avere una famiglia così. Ne va del concetto di educazione: al padre sono demandate le regole, alla madre l’accudimento, non ci possono essere alternative“. In seguito alle dichiarazioni del capogruppo ha preso una posizione critica anche l’Ordine degli Psicologi delle Marche.
Aborto: un pò di numeri
I dati ufficiali del Ministero della Salute circa gli obiettori di coscienza in Italia sono fermi al 2018: “ha presentato obiezione di coscienza il 69% dei ginecologi, il 46,3% degli anestesisti ed il 42,2% del personale non medico, valori in leggero aumento rispetto a quelli riportati per il 2017 e che presentano ampie variazioni regionali per tutte e tre le categorie.” Questo quello che si legge sulla relazione del Ministro della salute sull’attuazione della legge contenente norme per la tutela sociale della maternità e per l’interruzione di volontaria di gravidanza (legge 194/78).
Dal 2015 al 2018 non ci sono state grandi variazioni: stando al rapporto del 2015 infatti -i cui dati si riferiscono all’anno 2013/2014- avevano presentato obiezione di coscienza il 70,5% dei ginecologi, il 47,5% degli anestesisti, ed il 42,3% di personale non medico.
Il Lazio
“Introdotta anche la possibilità di effettuare l’interruzione volontaria di gravidanza con la pillola RU486 anche in day hospital, eliminando così l’obbligo del ricovero di tre giorni previsto dalla normativa precedente. L’intervento in day-hospital prevede tre step: l’accesso e preospedalizzazione, il controllo degli esami e la somministrazione del farmaco, i controlli clinici. La scelta della Regione si basa su evidenze scientifiche internazionali, sui pareri dell’Oms e sui dati del ministero della Salute. Un percorso di civiltà per tutelare il diritto alla salute e il diritto di scelta delle donne.” questo quello che si legge sul sito della Regione Lazio.
La Regione Lazio è anche stata la prima a volere un concorso pubblico solo per medici non obiettori. Nonostante tutto però gli ospedali che praticano l’interruzione volontaria di gravidanza sono limitati: in tutto il Lazio le strutture che effettuano IVG sono tra il 30% ed il 70%. Le regioni in cui questo valore supera il 70% sono: Sardegna, Toscana, Liguria, Veneto e Valle D’Aosta.
Inoltre va evidenziato che “il metodo farmacologico è sicuro ed efficace, e può essere utilizzato, oltre che per l’interruzione volontaria, anche nel trattamento di varie condizioni cliniche quali l’aborto spontaneo, l’aborto incompleto, la morte fetale intrauterina […] una procedura che ha costituito una rivoluzione nel campo della medicina riproduttiva dal giudizio morale che la legava esclusivamente all’aborto volontario. Estendere le indicazioni ad altre condizioni ostetriche include necessariamente anche quegli operatori che finora non hanno mai applicato il metodo farmacologico“. Un aspetto rilevante che esula dall’obiezione di coscienza ponendosi al di sopra di questa per la salute delle donne.
Forse, più che sull’aborto, l’attenzione andrebbe spostata su una responsabilizzazione della sessualità che può implicare o meno una maternità consapevole e desiderata. Consultori pubblici e laici, accesso facilitato a metodi contraccettivi, un valido programma di educazione sessuale nelle scuole. Ricorrere a tutto questo in maniera continuativa e gratuita per i cittadini inficerebbe sul ricorso all’aborto che, in ogni caso, non resta mai una scelta facile per chi la affronta.
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