Giulio Regeni: cinque anni senza giustizia

25 gennaio 2016: Giulio Regeni scompare mentre stava lavorando al Cairo su una tesi di dottorato.  Il suo corpo, con evidenti segni di tortura, venne trovato il 3 febbraio 2016 abbandonato sul ciglio di una strada. La procura di Roma ha chiesto il rinvio a giudizio per quattro agenti dei servizi di sicurezza egiziani, con l’accusa di aver sequestrato, torturato e ucciso il ricercatore italiano. Ad oggi, a cinque anni dalla sua morte, Giulio Regeni ancora non ha avuto giustizia. 

Nel gennaio del 2016 Giulio Regeni si trovava al Cairo per una ricerca sui sindacati indipendenti del paese: i temi politici in Egitto sono sempre molto delicati, come può ben evidenziare la storia di Patrick Zaki, studente egiziano dell’Università di Bologna accusato di propaganda sovversiva divulgata attraverso dei post sui social. Tra i sindacati in particolare risiedono molti oppositori politici del governo egiziano. La ricerca di Giulio Regeni venne sostenuta da una fondazione britannica che gli diede un finanziamento di diecimila sterline.

Poco dopo il suo arrivo al Cairo, nel 2015, Giulio parlò delle sue ricerche con Mohamed Abdallah, uno dei leader del sindacato indipendente dei venditori di strada, il quale -secondo un’informativa dei carabinieri del Ros e dei poliziotti del servizio centrale operativo depositata agli atti- denunciò le attività del ricercatore iniziando a riportare ai servizi segreti tutte le informazioni in suo possesso circa la vita di Giulio. Il sospetto è che da quel momento Giulio venne messo sotto controllo, aprendo un indagine negata ancora oggi dallo stato egiziano. Infatti le autorità egiziane hanno ammesso di aver indagato Regeni, ma, stando alle loro dichiarazioni, nel gennaio 2016 e soltanto per pochi giorni in quanto “gli accertamenti non avevano riscontrato alcuna attività di interesse per la sicurezza nazionale”.

Molti gli avvenimenti che confermano il fatto che Giulio fosse tenuto sotto controllo da molto tempo: in particolare l’11 dicembre 2015 avvenne un fatto abbastanza sospetto. Regeni partecipò ad un incontro pubblico e autorizzato sui sindacati indipendenti. Restando impressionato dagli argomenti trattati durante l’incontro scrisse sopra un articolo giornalistico molto sentito che chiese di far pubblicare sotto pseudonimo. L’articolo venne reso noto con il vero nome del suo autore dopo la morte di Giulio Regeni come testimonianza per i letto. Sempre durante quell’incontro sui sindacanti indipendenti una donna con il velo si avvicinò a Giulio e lo fotografò. Questo fatto colpì Regeni e, stando alle dichiarazioni di alcuni suoi amici, lo mise in agitazione.

Il 5 gennaio il sindacalista Abdallah ricevette istruzioni dal maggiore Sherif su come utilizzare una telecamera nascosta per registrare Regeni. Nei giorni seguenti, fino al 21 gennaio, Abdallah avrà ben 13 contatti telefonici con il maggiore Sharif. Il 25 gennaio alle 19.41 Regeni inviò un messaggio alla sua fidanzata con scritto “Esco“. Si stava dirigendo presso la fermata della metropolitana nei pressi della sua abitazione per andare ad una festa di compleanno. Data emblematica quella del 25 gennaio: anniversario della rivoluzione del 2011 che portò alla caduta di Mubarak e all’ascesa dei Fratelli Musulmani.

Regeni quella sera non raggiunse mai il luogo della festa e scomparve. Il suo corpo martoriato venne ritrovato il 3 febbraio 2016 sul ciglio di una strada. L’autopsia evidenziò segni di torture: i denti di Giulio sono stati spezzati, le sue mani fratturate, il suo corpo ha riportato numerose lesioni traumatiche a livello della testa, del volto, del tratto cervico dorsale e degli arti inferiori. Secondo gli inquirenti la morte di Giulio Regeni è stata causata da un insufficienza respiratoria acuta a causa delle gravi lesioni di natura traumatica provocate dalle percosse.

Due persone hanno testimoniato di aver visto Regeni dopo il rapimento in due caserme diverse: la prima nei pressi della metropolitana di Dokki, proprio vicino al luogo del rapimento. La Procura di Roma ha chiesto il rinvio a giudizio per quattro agenti dei servizi di sicurezza egiziani: il generale Tareq, i colonnelli Helmy e Kamal e il maggiore Magdi Sharif. L’Egitto però non ha fornito i loro indirizzi alla procura di Roma, ostacolando le indagini.

 

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