Mediterraneo, mare nostrum o “mare di guai”?
La conferenza MED2020 ha fotografato uno scenario mediterraneo in grande evoluzione. Il complicato rapporto dell’Italia con il mare di mezzo
Tra i tentativi italiani di giocare un ruolo attivo nel bacino del Mediterraneo, va segnalata l’iniziativa MED2020 – Mediterranean Dialogues, a cura del Ministero degli Affari Esteri e di ISPI, Istituto per gli Studi di Politica Internazionale.
Lo scopo di MED, tenutosi dal 25 novembre al 4 dicembre e giunto alla sesta edizione, è quello di favorire un forum di discussione tra i paesi del mediterraneo, sia della sponda nord (l’Europa, più o meno unita) che di quella sud, dal Maghreb fino alla Turchia. Ovviamente, la più problematica.
Un ‘mare di guai’?
L’idea che il mare di mezzo, più che un’opportunità, costituisca per l’Italia una fonte di problemi è ben consolidata nell’opinione pubblica e nella classe politica. Instabilità, guerre, povertà come causa di immigrazione dai paesi arabi e dall’Africa sembrano essere l’unico approccio al tema: qualcosa da cui difendersi, passato spesso per invocazioni di ‘porti chiusi’ ai migranti, e di ‘restarsene a casa loro’. Un quadro accompagnato da una certa fragilità nelle relazioni internazionali e dallo stato del sistema logistico-portuale italiano, non certo all’altezza di un paese con più di settemila chilometri di coste.
Un’idiosincrasia (qualcuno l’ha chiamata ‘orrore per il mare’) lontana anni luce non solo da quel ‘mare nostrum’ di romana memoria, ma anche dalla tradizione marittima di Genova e Venezia, per non dire delle altre repubbliche marinare. Che erano molte di più di quattro: oltre a Pisa e Amalfi, lo sono state Ancona e Gaeta, perfino la piccola Noli in Liguria, e Ragusa, che oggi è in Dalmazia ma allora era una città veneziana. Fondazioni, quartieri, banche, uffici commerciali e guarnigioni erano presenti in tutto il Mediterraneo, soprattutto lungo le rotte d’oriente, a Creta, Cipro, a Gerusalemme come a Costantinopoli (ma anche nel mare del Nord, dove i genovesi aprirono le prime banche d’Europa). Cosa è successo dopo? Qual è la radice di tanta diffidenza verso il mare?
Mare è potere
Gestire le rotte, i traffici, lo scambio di merci e di tutte le relazioni politiche e diplomatiche che ne derivano è alla base del ranking geopolitico delle nazioni. Avere potere di influenza sul mare presuppone controllare gli stretti e disporre di basi intermedie, dotandosi sia di un sistema diplomatico-commerciale ramificato che di un apparato di difesa in grado di scoraggiare aggressioni. Le marine italiane ereditarono il patrimonio di relazioni marittime del mondo romano, mentre i grandi stati nazionali centro-europei formavano prevalentemente sulla terraferma. Tra quattro e cinquecento accade però che i turchi si impossessino di Costantinopoli, mentre la sponda atlantica d’Europa comincia a guardare alle Americhe: il Mediterraneo diventa sinonimo di pirateria e di avanzata ottomana, mentre le tradizionali relazioni commerciali cominciano a declinare in favore delle vie delle Indie, vecchie e nuove. La frammentazione politica della Penisola fa il resto, e quando l’apertura del canale di Suez dà al mare di mezzo una nuova centralità, non è difficile per l’Austria fare di Trieste il proprio porto, per Francia e Inghilterra tenere Genova in ombra; gli altri porti, da Livorno a Bari, si sviluppano in proporzione alla dimensione politica degli stati di appartenenza. Porti non più che di media o piccola importanza, e soprattutto destinati a un mercato interno.
Il mare nostrum torna così ad essere affollato, e quando si forma lo Stato unitario gli spazi di manovra saranno molto ristretti. Un contesto che porterà l’Italia a scontrarsi con gli interessi di Francia e Inghilterra nel Maghreb, ma con una statura internazionale segnata dalla sconfitta nella Seconda Guerra mondiale. Ciononostante, la Prima Repubblica mette a punto una sua strategia che riserva una grande attenzione al mondo arabo. Una visione che punta a sopravvivere, come con il ‘lodo Moro’, un patto di non aggressione – non scritto – con il terrorismo palestinese dell’OLP, ma che vede anche momenti di una certa ambizione, ad esempio con l’ENI di Enrico Mattei e con spazi di autonomia che l’Italia ha cercato di ritagliarsi anche nei confronti dell’alleato americano. Insomma, il Mediterraneo come spazio in cui le nazioni competono per assicurarsi energia, sicurezza e scambi in un quadro di equilibrio dinamico. Come avviene da sempre.
Come sono andate le cose con Francia e Inghilterra LineaDiretta24 lo ha raccontato in recenti articoli. Ma ora ci sono fatti nuovi, su cui MED2020 ha tentato di fare luce e creare dialogo.
Il ‘nuovo’ mediterraneo
Il Covid, innanzitutto. Il sottotitolo della conferenza era ‘come trasformare la pandemia in opportunità’, per trarne una ’agenda positiva’. In una situazione già molto problematica, che vede le crisi di Libia, Siria e Libano generare 17 milioni di sfollati interni e 3 milioni di rifugiati, a dieci anni dalle primavere arabe emergono nuovi movimenti di protesta, parzialmente silenziati dai rispettivi regimi con il pretesto della pandemia e con nuovi giri di vite sulle libertà individuali, sindacali, politiche. La crisi economica ha generato un crollo del prezzo del petrolio, che era il vero potere contrattuale del mondo arabo, e a seguire un tracollo del Pil, della manodopera, della spesa pubblica e dell’occupazione: in Libia, oltre la metà dei giovani è disoccupata.
Gli equilibri mediterranei sono stati alterati dall’emergere di nuovi soggetti che aspirano a un inedito protagonismo, come la Turchia, intervenuta pesantemente nei conflitti libici e siriani, mentre gli USA proseguono la loro politica di disimpegno iniziata già ai tempi di Obama, lasciando spazio all’interventismo russo. Si assiste anche a un attivismo inedito da parte di paesi come Algeria ed Egitto, rilanciati dallo sviluppo di zone portuali franche e una ristrutturazione delle forze armate marittime, che a volte li spinge a rivendicazioni territoriali molto aggressive nei confronti delle acque della sponda nord (Italia in primis).
Un ruolo attivo
Una visione rinunciataria e perdente di tale scenario potrebbe portare a un’unica preoccupazione: come evitare nuovi, enormi, flussi di immigrazione incontrollata. Una visione del mediterraneo come un ‘mare di guai’, frontiera da chiudere, minaccia, paura, come ai tempi in cui si scrutava l’orizzonte aspettando il cupo grido di ‘mamma li turchi’. Oppure uno spazio dinamico nel quale tentare di giocare un ruolo attivo. L’immigrazione come veicolo per presenze istituzionali più assertive, non solo con i paesi del mediterraneo orientale ma anche con quelli dell’Africa sub sahariana. Paesi da non vedere come dei poveretti da aiutare, ma come degli stati moderni, dotati di un’opinione pubblica, una cultura, un apparato economico con cui entrare in relazioni mature, da pari. Accettando l’idea che alle relazioni di partenariato serve affiancare anche efficienti apparati di difesa e intelligence, a tutela dei propri concittadini, degli imprenditori, dei cooperanti, dei lavoratori. Con un’idea generale di cosa costituisce l’interesse nazionale, anche all’interno di contenitori come Nato e Unione Europea, che sono dei forum di composizione delle divergenze e non il contesto del loro annullamento.
Il MED2020 si è concluso con una serie di temi da proporre agli stati partecipanti, dal dialogo interreligioso al coinvolgimento delle società civili, dalla gestione della transizione energetica a quello dei flussi migratori. Se l’Italia avrà la capacità di dettare l’agenda lo vedremo anche dai prossimi impegni internazionali, come la presidenza del G20. E naturalmente, dall’evoluzione del caso Regeni.