Dio salvi la Regina. E l’Italia
La Gran Bretagna ha esercitato sul nostro paese un’influenza spesso determinante. Dall’Unità fino alla strategia della tensione
I sociologi lo chiamano ‘eccezionalismo italiano’: interpretiamo le nostre vicende politiche, economiche e sociali credendoci un caso unico al mondo. Perdiamo di vista il mondo intorno a noi, come questo ci influenza e quali siano le molte cause dietro l’effetto. Non avere le chiavi di lettura della complessità internazionale è molto rassicurante, perché individuare i colpevoli nel cortile di casa nostra ci illude che sia tutto molto semplice. Una semplificazione in cui fioriscono complottismi, populismi e tutte le loro degenerazioni, in base alla quale rischiamo di prendere decisioni importanti: da chi farci governare, come consumare, come investire. E da che parte stare.
L’influenza che la Gran Bretagna ha avuto sul nostro paese è in questo senso una storia tanto istruttiva quanto trascurata. Una vicenda alla quale Mario Cereghino e Giovanni Fasanella hanno dedicato diversi saggi, tra cui Il golpe inglese (2011) e il recentissimo Le menti del doppio stato.
L’isola e la penisola
Ogni paese persegue un proprio interesse nazionale. La Gran Bretagna è stata la prima potenza globale della storia, fondando l’”Impero su cui non tramonta il sole”. È un’isola e il controllo dei mari è stata l’essenza del suo potere. Per gli inglesi, dopo la scoperta delle Americhe il Mediterraneo perde definitivamente importanza, in favore delle rotte Atlantiche e degli oceani Indiani.
Ma a metà Ottocento iniziano i lavori per il Canale di Suez. Per congiungere il Commonwealth alla madrepatria non servirà più fare il giro dell’Africa, e passando di nuovo per il vecchio Mediterraneo tra Londra e Bombay si risparmia il 44% della rotta. Bisogna dunque ridimensionare i francesi, e se in Italia si creasse finalmente uno stato di media potenza, questo aiuterebbe. Meglio se a spese del Regno di Napoli: ha la marina più potente del Mediterraneo, sta proprio nel bel mezzo delle rotte inglesi ed è pure amico degli odiati Zar russi. Con il piccolo e più docile Piemonte, invece – che del mare ha orrore – ci sono ottimi rapporti e si può provare a staccarlo dai francesi. Il sostegno politico ed economico inglese a moti e insurrezioni risorgimentali sarà rilevante, e le navi di Sua Maestà l’11 maggio 1860 a Marsala forniranno un importante supporto logistico a Garibaldi, controllando che tutto fili liscio e che la marina borbonica non faccia scherzi.
Il patto, naturalmente, è che l’Italia resti al suo posto e che continui a non interessarsi troppo del suo mare. Ma a questo ci pensa benissimo anche da sola: dopo la disastrosa prova a Lissa nel 1866, quando la flotta italiana viene sbaragliata da quella austriaca, la Marina Militare viene declassata a forza armata minore, e la classe dirigente del nuovo stato, prevalentemente padana, si proietta piuttosto oltre i valichi alpini. Con il mare non ha grande dimestichezza.
Il sostegno inglese continuerà anche con il fascismo, di cui Churchill fu uno dei primi e più entusiastici estimatori, sempre in chiave anti-russa e a contenimento della Germania; quando Mussolini nel 1938 tenterà l’avventura imperiale in Abissinia, proprio sul Mar Rosso e lungo le rotte inglesi, le cose cambieranno. Ma è negli anni tra la fine del regime e l’avvio della Repubblica che l’influenza inglese torna decisiva, determinando eventi che avranno dirette conseguenze anche sulla nostra storia recente. Ed è qui che si concentra l’indagine di Cereghino e Fasanella.
Guerra e dopoguerra, il caos utile
La Gran Bretagna, che alla fine della Seconda Guerra è ancora la nazione egemone, vorrebbe che l’Italia restasse una Monarchia. I suoi servizi segreti, ancora i migliori al mondo, hanno infiltrati ovunque: tra i fascisti repubblichini e nelle formazioni partigiane, dai monarchici ai comunisti. Una rete di agenti informatori doppio e triplogiochisti, pronti a vendersi per soldi, per impunità, per salvacondotti o per carriera, piena di ex agenti dell’Ovra, fascisti riciclati, comunisti insurrezionalisti fedeli a Stalin o a Tito, e che considerano Togliatti un traditore. Il paese porta l’infamia dello sconfitto, dell’aggressore, della dittatura, e ora la deve pagare.
Tutti si gettano sulle spoglie dell’Italia. Non solo inglesi, ma anche francesi, jugoslavi e perfino austriaci, per non dire dei sovietici. Ognuno reclama una porzione di territorio – agli inglesi non interessano concessioni territoriali ma il mare – e un’influenza determinante nella nuova Italia, per farne un proprio stato satellite accondiscendente ai propri interessi; d’altra parte, la Germania è stata appena divisa in quattro zone di occupazione. Dal caos ci salveranno gli americani: stanno sostituendo la Gran Bretagna nel ruolo di prima potenza mondiale, e gli serve ridimensionarne il potere, anche nel Mediterraneo. Un paese nella propria sfera di influenza, ma integro e rimesso in piedi, è più funzionale allo scopo.
Agli albori della strategia della tensione
La ‘strategia della tensione’ nasce tra il ’44 e i primi anni Cinquanta. L’Italia è teatro di guerra civile, con un esercito allo sbando, presenze militari tedesche, alleate e formazioni partigiane di ogni tipo, da quelle ideologizzate a quelle più sbandate. Nessuno si fida di nessuno e stragi, tradimenti e vendette sono la quotidianità. Un paese occupato in cui si creano in segreto reti per la guerra clandestina, dirette dall’esterno e pronte ad arruolare qualsiasi manovalanza armata possibile, compresa mafia, massoneria e squadroni della morte, di qualsiasi colore politico. L’ideologia c’entra poco: spesso opposte fazioni si alleano tra loro, per obiettivi temporaneamente coincidenti.
È in questo clima, destinato a proseguire anche nei primi anni della transizione democratica, che gli inglesi puntano a una ‘soluzione greca’ per l’Italia. Mirano a provocare le forze di sinistra perché tentino la rivoluzione armata, il paese sprofondi nel caos e siano legittimati a intervenire militarmente – l’esercito alleato è ancora in territorio italiano – e favorire una soluzione di tipo autoritario. Quello che accade nel marzo 1946, quando i partigiani greci sobillati da Tito insorgono e gli inglesi intervengono a fianco delle organizzazioni paramilitari anticomuniste: è la Grecia dei Colonnelli. In Italia, però, anche stavolta gli Usa evitano il peggio. E pure i sovietici hanno imparato la lezione greca.
Di questo scenario fanno parte eventi noti e meno noti del dopoguerra. L’intero governo Bonomi il 20 ottobre del 1944 scampa a un attentato che avrebbe azzerato il Consiglio dei Ministri tra cui sono De Gasperi e Togliatti, che affronteranno diversi altri tentativi di eliminazione fisica. Nella prigione di Schio nel luglio 1945 c’è una strage di 54 nazifascisti reclusi attribuita a formazioni garibaldine, in realtà orchestrata dai servizi segreti inglesi per gettare discredito sul movimento partigiano. A Vergarolla, vicino Pola, nell’agosto 1946 muoiono più di 100 bagnanti per la misteriosa esplosione di un deposito di mine posto sotto custodia del comando alleato. A Portella della Ginestra il primo maggio 1947 una provocazione mafiosa, facendo strage di militanti comunisti, avrebbe dovuto indurne una reazione violenta. La lista è lunga, e lo zampino del servizio segreto britannico spunta sempre.
Indagare con le categorie della storia
Come dimostrano Cereghino e Fasanella, l’apertura degli archivi del servizio segreto inglese di Kew Gardens nel 2015 ha fornito ulteriore documentazione per suffragare una verità storica già nota da tempo. L’Italia del dopoguerra si è fondata su un faticosissimo compromesso tra laici, comunisti e cattolici; questo accordo ha avuto nella Gran Bretagna un acerrimo nemico, negli USA un preoccupato sorvegliante e nell’URSS un attivo spettatore. Un tutoraggio in cui il paese è riuscito a volte a ritagliarsi spazi di autonomia, pagati a caro prezzo, e a cui altre volte ha dovuto soccombere, spesso senza che l’opinione pubblica se ne accorgesse. Una verità che attraversa tutto il nostro secondo Novecento e anche oltre, che ormai va affrontata con le categorie della storia e non più dell’ideologia. E che è necessario conoscere per rileggere con consapevolezza il nostro passato, e comprendere meglio il nostro presente.
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