Il Pecorino Romano, una storia italiana
Storia di uno dei formaggi più antichi della nostra gastronomia. Anche se oggi il pecorino è più sardo che romano
Generalmente, i nomi sono la sostanza delle cose, lo dicevano i romani (in latino). Ma non sempre è così: ad esempio il pecorino, il più antico tra i nostri formaggi, già consumato proprio dai romani, si chiama romano ma non lo è, o almeno non più. Una storia singolare, che mette insieme le legioni imperiali, le transumanze, le immigrazioni moderne, i ricorsi e le denunce per frode. Per dirla in quel linguaggio giornalistico un po’ trito, da rotocalco: una storia tutta italiana.
Una storia italica
La storia inizia quando più che italiana era ancora italica. Si sa che l’antica Roma nasce da storie di pastori, di pecore e di lupi, di pascoli e di sconfinamenti. Perché i pastori sono gente che cammina, che ha bisogno di terra, di erba fresca, di spazio; e di certe storie di confini e di limes se ne frega. Le prime guerre di Roma sono in realtà ammazzamenti tra pecorai, profondamente imparentati con i colleghi abruzzesi – che all’epoca si chiamavano sabini, marruccini, vestini, peligni eccetera. Quei pecorai avrebbero in seguito creato un impero, e un esercito che negli zaini da quaranta chili tiene un segreto, un elisir di forza e di energia: oltre a pane e puls, una sbobba di farro, il legionario romano ha con sé un’oncia di pecorino. Ben ventisette grammi quotidiani di caseus compatto, ben salato e facilmente conservabile.
Che si trattasse dello stesso pecorino nostro ce lo dicono tra gli altri Plinio il Vecchio, Varrone e Columella. Quest’ultimo ne descrive nel dettaglio la fabbricazione: “Il latte viene generalmente fatto rapprendere con caglio di agnello o di capretto…”, latte rigorosamente di pecora (i romani non bevono latte di vacca), la forma viene stagionata e cosparsa di sale tritato “affinché trasudi il proprio umore”. E con il suo sapore forte e piccante, il formaggio pecorino trasuda anche la storia di Roma e delle sue origini, l’umore di fauni con piedi di capra, di uomini che durante i lupercalia si travestivano da lupi – l’incubo di tutte le società pastorali – di atmosfere arcaiche fatte di flauti di Pan, tosature, squartamenti e grasso di pecora arrosto. Un primato non banale, quello dell’antichità del pecorino, se pensiamo che invece di garum, la salsa di interiora di pesce marcio, di puls e di ghiri stufati oggi non sentiamo più parlare; e che il parmigiano reggiano, formaggio al quale viene spesso accostato per valori nutrizionali, risale ‘solo’ al medioevo. Il pecorino, invece, da oltre duemila anni vive e lotta con noi (ricordiamo comunque che scambiare pecorino con parmigiano su cacio e pepe, amatriciana e gricia è vilipendio alla bandiera, alla religione e alla madre).
Succede allora che molto tempo dopo, nel 1955, un tale patrimonio di sapore e di storia venga tutelato con il riconoscimento di Denominazione di Origine Controllata – la DOC casearia più antica d’Europa – e nel 1979 con la nascita del Consorzio per la Tutela del Formaggio Pecorino Romano. Quest’ultimo però si costituisce a Bortigali, vicino Macomer, in provincia di Nuoro, e lì ha tuttora sede.
Come si è arrivati dai Sette Colli al centro della Sardegna?
Una storia moderna
Il fatto è che a un certo punto la pastorizia diviene sinonimo di arretratezza. Di uso improduttivo del suolo, di rendite fondiarie e di società nomadica, ignorante e premoderna, come abbiamo raccontato a proposito di transumanze. Con le trasformazioni sociali avvenute tra otto e novecento, i primi a ritrovarsi senza lavoro sono proprio pastori, carosatori e casari che sono anche i primi a emigrare, abbandonando terreni e reimpiegandosi in città in rapida crescita. Ci si mette anche il Sindaco di Roma: divenuta Capitale d’Italia, la città non si può più permettere di tenere fra le mura le inquinanti salamoie della salatura del pecorino, e nel 1884 Leopoldo Torlonia la vieta per motivi igienici. Molti casari dovranno trasferire l’attività altrove, e molti approderanno in Sardegna.
Anche l’agricoltura si evolve. Si industrializza, prevede utilizzi più intensivi dei terreni, il latifondo viene frazionato, cedendo milioni di braccia all’industria. Come quelle dei mezzadri, che avevano condotto le aziende per conto terzi insieme a un’agricoltura per la sussistenza della propria famiglia: anche loro abbandonano le terre. Quando nel secondo dopoguerra aumenta il consumo di latte e derivati, di pastori e di casari, oltre che di agricoltori, in giro non ce ne sono più molti. Anche i vecchi pastori d’Abruzzo, quelli che a settembre era tempo di migrare, dagli anni ‘50 sono ormai sempre di meno.
Una storia sarda e (sempre meno) romana
Ma c’è chi ha resistito. Da tempo per fronteggiare la domanda di pecore e pecorini si ricorre alla pastorizia sarda, già florida, che a fine ottocento si era arricchita con l’arrivo dei romani orfani della salatura; mentre nel Lazio le aziende produttrici di latte e formaggio ovino diminuiscono a vista d’occhio, man mano che diminuiscono spazi e forza lavoro agricola. Tanto che negli anni ’60 i sardi sbarcano tra Lazio e Toscana con un fiume di pecore, e si insediano nei terreni lasciati vuoti dallo smantellamento della mezzadria, in particolare tra Viterbese e bassa Toscana: oggi il disciplinare del Pecorino Romano DOP riconosce come zona di origine di latte, pecore, caglio e lavorazioni varie il Lazio, la Sardegna e la provincia di Grosseto. Ma nel Lazio le aziende che lo producono sono attualmente cinque o sei, il famoso Brunelli nel 2017 aveva fallito e il 96 percento della produzione totale viene oggi dal territorio isolano.
I pochi produttori attivi nel Lazio hanno nel tempo accusato i sardi di scorrettezza e di tutelare solo i propri interessi, pur fregiandosi impropriamente dell’appellativo di pecorino ‘romano’; e data la sproporzione tra laziali e sardi nella base consortile, l’accusa ha fatto piuttosto rumore. Si è allora corso ai ripari: i produttori del Continente hanno dato vita a un pecorino romano-romano, o Pecorino Romano del Lazio, ma non sono riusciti a ottenere che gli altri pecorini romani si identificassero come sardi e toscani. La differenza c’è eccome, a sentir loro: cagliato con caglio di vitello e agnello, più sapido, più stagionato (dieci mesi contro cinque-otto), salato a secco e non in salamoia. Più antico, più autentico, insomma più buono. E anche più caro.
Le esportazioni del pecorino romano tutto, comunque, vanno bene. Le caratteristiche del formaggio, le stesse che ne consentivano il consumo delle legioni in giro per l’Impero, ne agevolano il trasporto anche oltreoceano; e il pecorino romano DOP nel 2018 ha destinato all’estero quasi la metà della sua produzione, il 46,6%; l’anno precedente addirittura il 68% (dati Ismea).
Insomma, la storia del pecorino, celebrato dagli antichi ed esportato oggi in tutto il mondo, ille caseus lacte ovium paratus, quel formaggio preparato con il latte di pecora che ha oltre duemila anni di storia e che odora di Roma arcaica, continua.