Vejo, la Città Invisibile
Per conoscere uno dei luoghi più affascinanti dell’antichità bisogna lasciarsi guidare dalla storia. E dai sentieri del Parco Regionale
“Scusi, sa dove si entra al Parco di Vejo?”
La famigliola ha tutta l’aria di essere reduce da un lauto pranzo domenicale, e di volerne facilitare la digestione con una passeggiata; se sia breve o no, dipende dalle abitudini alimentari e dai punti di vista. Genitori sulla trentina, due bimbi, dotazione di pallone e piccola bicicletta con una rotella sola, seguendo l’indicazione da Isola Farnese forse stanno cercando un parco. Nel senso di parchetto: “Ce ne hanno parlato tante volte ma non ci siamo mai stati, dicono che non c’è molto da vedere”.
Questo, tra i romani contemporanei sembra essere il più diffuso approccio – soprattutto la domenica, appunto – al sito dell’antica Veio, uno dei posti più magici dell’antichità. E siccome tutte le magie per definizione devono essere nascoste agli occhi, anche per cogliere questa bisogna conoscere alcuni segreti: allora si spalancherà un mondo, arcaico, scomparso, invisibile. Ma a suo modo, ancora ben presente.
Un primo segreto è che il Parco Regionale di Vejo, istituito solo nel 1997, è costato tanta fatica.
Vejo e Appia Antica, ‘tesori verdi’ di Roma
Quando negli anni ’50 Antonio Cederna già conduceva le sue battaglie per la tutela dell’Appia Antica, gli urbanisti più illuminati immaginavano due grandi cunei verdi che portassero il verde da fuori città fino al centro di Roma: l’Appia a sud-est, e Vejo a nord-ovest, tra Cassia e Flaminia, fino a Corso Francia. Anche qui ci furono comitati, raccolte di firme, mobilitazioni culminate nell’istituzione di un parco di 15.000 ettari, esteso su nove comuni. Certo l’Appia, la Regina Viarum con il suo iconico basolato, le tombe, gli acquedotti e la vista dei Castelli Romani sullo sfondo, ha avuto una potenza simbolica ed evocativa – e quindi anche una capacità di coinvolgimento dell’opinione pubblica – infinitamente più forte.
Uno dei motivi è che mentre là trovi grandi arcate, muri possenti e drammatici, iscrizioni sepolcrali, catacombe ed ex voto, della potente città etrusca già duemila anni fa anche Properzio – come la nostra famigliola – diceva che non c’era molto da vedere: “Regno potente fosti un dì, oggi suonar tra le tue mura udiamo del pastor lento il corno, e dei tuoi figli sopra l’ossa vediam mietere le biade”. E questo è l’altro segreto: qui si ara, si miete e si pascola sulla città decomposta, fatta di tegole, di ossa, di bracieri spenti, di monili e monete perdute. Ve ne potete accorgere a ogni aratura, quando al tramonto tra le zolle vedrete vagare decine di ombre furtive: anche loro vedono qualcosa che si vede a stento. E infatti si aiutano con i metal detector.
Vejo e la sua anima noir
Questa anima noir di Vejo si consolida da secoli. George Dennis, David Lawrence e i viaggiatori-archeologi inglesi dell’Ottocento assoldavano i contadini del posto, armati di spillone, per trovare tombe e preziosi corredi funerari; le tombe solitamente crollavano, e la demarcazione tra archeologia e saccheggio non era sempre chiara. Unico deterrente, gli antichi malefici etruschi che colpivano i profanatori, leggende di improvvisi malesseri tra gli scavatori di frodo, tronfi acquirenti di urne cinerarie al mercato nero che poi impazzivano. D’altra parte si sa che gli etruschi erano dediti alle arti magiche, e che già i romani li temevano per questo. In un passato più recente, diciamo ai tempi dell’edonismo reganiano, romani ricchi e annoiati provenienti dalla vicina Cassia – Olgiata, Giustiniana e, altro quartiere dal nome molto noir, Tomba di Nerone – a Veio ogni tanto ci facevano pure le messe nere.
Ma per saper vedere la magia del luogo, bisogna lasciargli raccontare la sua storia.
Avere nuovi occhi, conoscere la storia
Vejo è la più potente delle città dell’Etruria del sud. Controlla tutta la sponda destra del Tevere, compreso dove oggi sono Trastevere, il Vaticano, il Gianicolo, Monte Mario. Ha un porto, a Fregene, delle saline, molti alleati e nel VI secolo prima di Cristo è grande quanto Atene. Roma, l’emporio che nasce sul guado dell’Isola Tiberina, ha bisogno di espandersi al di là del fiume. Ma le sue capanne fangose sono derise dai raffinati etruschi, e i primi scontri sono causati da sconfinamenti di pecore, agguati, dispetti tra pastori. Presto, però, si arriva a vere guerre e a un vero assedio. La Confederazione Etrusca non ha grande simpatia per i veienti, gente che si dà grandi arie, vuole sempre comandare e vincere a tutti i costi ai Giochi, che erano cosa assai seria. Nel momento decisivo, la città viene lasciata sola.
L’assedio dura dieci anni – forse Tito Livio ne arrotonda la durata per riecheggiare quello di Troia. Assedianti e assediati ormai si conoscono, quando le sentinelle montano di guardia si sfottono, quasi si salutano. Un giorno alle mura si affaccia anche un vecchio aruspice veiente, e ci mette del suo con una frase misteriosa: “Finchè scorre l’acqua del Lago di Albano, dentro Vejo non entrerà Romano”. Sacerdoti ed indovini evidentemente godevano dell’immunità diplomatica, e su richiesta dei romani i veienti acconsentono a consegnarlo ai nemici perché sia interrogato sul significato di quelle parole. Quello però parla troppo, e rivela che si tratta di una profezia sulla fine di Veio contenuta dai Libri Fatidici, così i romani si sbrigano a scavare un canale tra il Lago Albano e il mare. Una profezia che contiene un dato storico: il segreto della civiltà etrusca era quello di saper governare le acque, con conoscenze idrauliche avanzatissime che mediante lo scavo di pozzi e cunicoli consentivano di portare ovunque acqua – cioè vita; i romani avrebbero detronizzato gli etruschi solo una volta che si fossero appropriati di quella conoscenza. A dare una svolta all’assedio stagnante arriva dunque Furio Camillo. Fa scavare segretamente due cunicoli che portano all’Acropoli, proprio davanti al tempio di Uni, la Giunone etrusca. Come i greci che sbucano dal cavallo di Troia, i romani distruggono la città attaccandola dall’esterno e dall’interno: è una strage. Ma la maledizione etrusca non si fa attendere: i romani avevano rigettato la resa dei veienti, e per questo sei anni dopo saranno massacrati dai Galli. E’ il 396 avanti Cristo.
I romani però non spargono il sale sulle rovine, come a Cartagine: si accontentano di incendiare tutto, massacrare i maschi, prendere donne e bambini come schiavi, depredare tutti i tesori e portare le statue sacre nel tempio di Giove al Campidoglio. Qualcosa però rimane, e quando i Galli distruggono Roma qualcuno proporrà perfino di trasferirne i superstiti a Vejo; successivamente, e invano, Augusto tenterà di farne un municipio. La storia però imbocca di continuo dei bivii bizzarri, e oggi a Vejo invece del traffico del centro e i lavori della metropolitana c’è un parco naturale regionale.
Visitare Vejo oggi
Uno dei modi migliori per visitare Vejo è percorrere la via Francigena, che lo attraversa da nord a sud. Le molte connessioni con la rete sentieristica del parco creano più opzioni: si può arrivare da Formello, a nord, lungo strade rurali ombreggiate dai pini domestici, costeggiando il Cremera e risalendo dalla Piazza d’Armi, dove ancora resistono tratti delle mura difensive, fino a solcare il grande altopiano a Macchiagrande. Se vi voltate, dietro di voi lo sguardo spazierà luminoso dai Castelli ai Lepini, dai Lucretili fino ai monti Sabini. Oppure, come fanno i gitanti che vengono dalla città, parcheggiare presso la Mola sotto Isola Farnese, dove è il tempio di Apollo del Portonaccio e la famosa cascata semicircolare, e da lì risalire per Campetti, dove l’orizzonte si alza verso il cielo e par di stare nei Campi Elisi del Gladiatore. Ma per scoprire l’essenza del luogo dovrete procurarvi una mappa ed essere disposti a perdervi, a levarvi le scarpe e camminare nell’acqua, ad arrampicarvi sulle forre. Solo così scoprirete il tunnel di Ponte Sodo, le necropoli rupestri, le acque ferruginose, i Bagni della Regina, le antiche strade che portavano a Capena, Fidene, Caere, Falleri e altre città dai nomi mitologici.
Dopo anni di difficoltà, da qualche anno il Parco regionale ha cominciato a decollare. A stare a due passi da Roma a volte si finisce nel suo cono d’ombra; ma quando i tempi maturano, per ristoranti, agriturismi e attività outdoor per camminatori, cavalli e biciclette si aprono prospettive interessanti. Caseifici, orti sociali, aziende agricole sono ormai in una rete accessibile grazie al marchio del Parco e ai canali istituzionali, al web e ai social media; si moltiplicano visite di ogni genere, da quelle guidate da archeologi fino alle notturne per l’osservazione delle stelle, con degustazione di prodotti locali: il sito del Parco di Veio ne è una buona vetrina. E il fenomeno, rispetto ad altre realtà romane e laziali, è ancora agli inizi, data la vastità e la complessità del territorio.
Se, prima della visita, avrete dunque nutrito la vostra fantasia, immaginato scene di lucumoni e aruspici, di assedi epici, di sortilegi e di divinità degli inferi; se saprete vedere mura e torri possenti dove oggi sono aceri e roverelle; se immaginerete gli alteri veienti scrutare il volo delle civette sacre a Mnerva, ad Aplu e a Turms; allora, sotto i campi di grano, vedrete comparire la Città invisibile. Scrive Italo Calvino:
Di Argia, da qua sopra, non si vede nulla; c’è chi dice: “È là sotto” e non resta che crederci; i luoghi sono deserti. Di notte, accostando l’orecchio al suolo, alle volte si sente una porta che sbatte.