Coronavirus, guerra e dopoguerra. Quando il paragone torna utile
Paragonare quella al Coronavirus a una guerra è fuorviante. Ma dopo c’è sempre un dopoguerra: cosa ci insegna la storia
La sterminata discussione sul Covid-19 ha evidenziato un frequente ricorso alla metafora bellica. Si dichiara guerra al Coronavirus, un esercito di medici e infermieri in trincea, i caduti, mascherine e respiratori come munizioni, il virus è il nemico e così via. Nelle analisi semantiche, l’uso del linguaggio guerresco è stato spesso criticato -anche se utilizzato molto- perché, si è detto, è sempre divisivo, semplificatorio ed escludente. E poi in un paese pacifista suona decisamente male.
Eppure, una lezione storica si può trarre dall’analogia con una vera guerra. Non tanto rispetto a se, come e dove si combatte, ma per quello che succede dopo. È infatti significativo che, invocando per il dopovirus un nuovo Piano Marshall, vari commenti abbiano proposto paralleli con il secondo dopoguerra italiano, cui seguì la ricostruzione e il boom economico. Ma c’è stato anche un altro istruttivo dopo-conflitto, quello successivo alla Grande Guerra del 1915-1918. Una storia rimossa, che ci potrebbe segnalare qualche pericolo e dare qualche insegnamento.
Il giovane Regno d’Italia affronta la guerra impreparato, più povero e diviso dei grandi stati europei. Ma nella conduzione del conflitto si comporta più o meno come gli altri: i tragici indicatori statistici -morti e feriti, diserzioni, renitenti, rese al nemico- sono in linea con quelli degli altri fronti europei, come pure i risultati sul campo. Anche lo stato maggiore dell’esercito compie errori – sottovalutazione, inadeguatezza tecnologica e culturale – analoghi a quelli di tutti gli altri belligeranti, che porteranno a dieci milioni di morti e alla fine di un mondo che non tornerà mai più. Quello che succederà dopo, invece, è una vicenda tutta italiana, legata alla peculiare realtà economica e sociale del Paese.
L’Italia nata solo cinquanta anni prima è un paese ancora fragile e arretrato. A Versailles, nel sedersi al tavolo dei vincitori non può affermare le proprie rivendicazioni territoriali, in parte mal difese dal Governo, in parte sproporzionate al suo reale status internazionale. Si parla di ‘vittoria mutilata’ e c’è grande rancore nei confronti dei ‘traditori’: i paesi alleati che non onorano i patti, e chi in patria aveva boicottato la guerra. Le divisioni interne riemergono. Chi ha passato tre anni a marcire male armato nelle trincee fatica a ‘tornare alla normalità’, il lavoro perso, il sistema sociale sfasciato, l’economia rurale ferma, la psiche segnata. Al di là delle onorificenze e delle celebrazioni ufficiali, i reduci avvertono una sostanziale indifferenza dello Stato e l’ostilità dei ‘non interventisti’; cresce il rancore verso chi era stato al sicuro nelle fabbriche, scioperando contro la guerra, ora additato come responsabile di tutti i mali: contadini contro operai. Nel ‘biennio rosso’ 1919-1920, le tensioni sociali fanno cadere governi impotenti e proclamare scioperi generali, scoppiano violenti disordini. L’economia dissanguata non consente a un welfare ancora ottocentesco di fronteggiare efficacemente la crisi. Ci si mette anche l’influenza Spagnola: dopo i 600.000 morti in guerra, altri 50.000 per la pandemia.
Dopo la relativa coesione, riemerge dunque la fragilità di un corpo sociale diviso come l’inconcludente classe politica. Si comincia a dire che invece di politici corrotti e fannulloni, lo Stato dovrebbe essere guidato da soldati, che hanno dimostrato tanto valore in battaglia. Che la libertà non è il fondamentale tra i valori, specie se non hai da mangiare. Che l’Italia è un grande paese e merita riscatto, gloria e un impero coloniale. La violenza dilaga. Si invoca qualcuno che possa mettere fine al caos, anche con l’uso di altra violenza, spietata ma una volta per tutte, purificatrice, contro i nemici della patria e nel nome del popolo. Il regime fascista arriva acclamato da un larghissimo consenso popolare, accolto come un liberatore. Mentre lo squadrismo incendia e assassina – ma molti vedono le camicie nere come il male minore – Mussolini nel 1924 tende la mano all’intero arco parlamentare per un governo di unità nazionale all’altezza dell’emergenza. Ma è una finta: seguirà la soppressione di tutte le libertà, la dittatura e poi una nuova guerra, stavolta mal condotta, disastrosa.
Oggi ci troviamo ancora nel pieno della ‘guerra’ al Coronavirus. I ‘bollettini di guerra’ della Protezione Civile, la conta dei morti, gli applausi ai medici, i concerti in streaming, le performance dai balconi e le difficoltà di collegamento su Zoom ci tengono ancora abbastanza occupati. Ma mentre si comincia a parlare di ‘Fase due’ già riemergono le divisioni di una fragile coalizione di governo, e l’opposizione utilizza la debolezza italiana sui tavoli europei (dove ha pesato un irrigidimento ideologico sui Coronabond) di cui è almeno corresponsabile: non si tratta di battere i pugni sul tavolo, ma di scontare la debolezza del deficit più alto d’Europa dopo la Grecia. Passata la fase ‘eroica’ del restare a casa, per la salute propria e della propria famiglia, quando si tornerà a cercare la vita dove si era lasciata, saranno in molti a non ritrovarla più.
Negozi, esercizi e piccole aziende chiuse che non riaprono, ricorso generalizzato alla cassa integrazione, interi comparti come turismo, ristorazione, spettacoli e eventi, tutto fermo. Si parla di meno 10 punti di PIL e di deficit oltre il 150%. I miliardi messi in campo dal Governo creeranno ulteriore debito, ulteriori interessi ed emissioni di nuovi titoli di stato che in un mercato libero nessuno comprerebbe (e che per nostra fortuna la BCE continuerà a comprare, invece). Ma questo non porterà certo l’Italia ad essere più forte e rispettata in Europa, neanche alzando la voce e invocando solidarietà – come quella che L’Italia stessa negò alla Grecia. Dopo aver bene osservato le norme sulla quarantena, probabilmente torneremo ad essere anarcoidi quando si tratterà di discutere su chi apre e chi resta chiuso, su chi deve avere i sostegni di Stato, su come invece si sarebbe dovuto fare.
Forse in futuronon invocheremo un partito di medici e infermieri alla guida dello Stato. Il rischio comunque è che si tornino a diffondere, oltre ai linguaggi di odio sociale, retoriche di una uscita dall’euro nel nome di un malinteso interesse nazionale, invocazioni di ordine e pulsioni al disordine, polemiche politiche fatte per cavalcare tensioni sociali, di cui ancora non intuiamo i confini. Evitare di scivolare verso derive ungheresi, turche o russe dipenderà dunque solo da noi, non da salvifici interventi dall’esterno, né europei, né americani, tanto meno cinesi. Dalla nostra percezione del vero interesse nazionale, dalla capacità di coesione e di usare solidarietà anche una volta scesi dai balconi, evitando crociate fatte per attribuire a nemici da abbattere, esterni o interni, tutte le responsabilità che noi non ci vogliamo assumere.
Dopo ogni guerra c’è un dopoguerra: è doveroso fare meglio delle altre volte. Cento anni fa, per esempio, non andò a finire bene.