Covid-19, chi vince e chi perde. Cosa succederà adesso
Alcune cose che si cominciano a capire a proposito del Coronavirus e dell’impatto che avrà sulle nostre vite, e alcune domande. Da farsi in tempo
In queste settimane, complice la quarantena – o il ‘lockdown’, come va più di moda dire da quando è diventata una misura internazionale – si moltiplicano le analisi, le opinioni, le bufale spacciate per scoop. Molte di queste sono affidate alla diffusione dei social: più la si spara grossa, più la polemica è stucchevole, più si promette di svelare chissà quali oscure trame, più il pezzo si diffonde e viene ricondiviso. Quindi, e a prescindere dal contenuto, diventa un contenuto di successo.
Intanto, però, il tempo passa e – tipico anche questo della diffusione social – le tesi pret-à-porter, o i mainstream del momento, sorgono e tramontano con grande velocità: il tempo ne fa giustizia. Qualche esempio.
Sbagliava chi diceva che, essendo il virus nato in Cina e avendolo denunciato con ritardo, la sua esplosione avrebbe segnato l’inizio della fine della leadership di Xi Jinping. La Cina, come tutti hanno capito, si è potuta permettere misure eccezionali, impraticabili in ogni paese democratico. Questo le ha dato più di un mese di vantaggio rispetto al resto del pianeta, e ora può presentarsi al mondo come la nazione – o il regime – che ha saputo meglio gestire l’epidemia, così come si presentò come l’unico sistema di governo che seppe contenere le conseguenze della crisi finanziaria del 2008. La superpotenza ha rallentato la sua macchina produttiva, ma non ha avuto bisogno di bloccarla come sta facendo l’Europa e come forse dovranno fare anche in molti stati USA (piuttosto: Trump, con le elezioni a novembre, non è messo affatto bene). Diversamente dalla vecchia Unione Sovietica, la Cina interpreta la nuova guerra fredda esercitando nel mondo un soft power che cammina lungo le Nuove Vie della Seta, e senza scontri ideologici. E non è un caso che oggi accorra in aiuto dell’Italia: per immagine, per fratellanza, per altruismo, certo. E forse anche perché l’Italia è stato l’unico paese del G7 ad aver firmato il memorandum sulla Belt and Road Initiative. I porti di Trieste e di Genova erano già nel mirino del governo cinese: forse, per Pechino, un’Italia grata e stremata dal lockdown economico potrà essere un partner anche più funzionale.
Neanche a dirlo, c’è chi insegue trame occulte e complotti. Dal laboratorio franco-cinese da cui sarebbe fuggito il virus nottetempo, passando da Bill Gates fino all’asse franco-tedesco per punire l’Italia, con tanto di vaccino israeliano già pronto. Qualunque spiegazione razionale sarà sempre ‘quello che vogliono farti credere’.
Non era possibile in Italia ‘chiudere tutto prima’. Non più di tanto, almeno. Le regole della quarantena, e l’arresto della vita sociale ed economica, sono sacrifici di tale impatto che non possono funzionare se non godono di un largo sostegno sociale. Ancora fino a due settimane fa, quando pure la situazione era già chiara a tutti, abbondavano cronache sui giovani della movida a Roma, sull’inarrestabile etica del lavoro a Milano, su un Mezzogiorno ancora ignaro, sul calcio che non si voleva fermare e così via. Figuratevi se a febbraio, quando ancora chi indossava una mascherina veniva guardato come un ipocondriaco e un paranoico, il Governo avesse detto: ora chiudiamo tutto, è meglio, il contagio non si vede ancora ma fidatevi. Un paese anarcoide e individualista si sarebbe mobilitato come un sol uomo. E non certo a favore.
Com’era prevedibile, le reazioni dell’emotività collettiva sarebbero state – e saranno sempre – di breve durata. Nella prima fase, quella della sorpresa, quella in cui si è passati da #milanononsiferma ai bollettini della Protezione civile seguiti come messaggi di Radio Londra, la percezione della gravità della situazione si è tradotta in un impegno a seguire le regole con grande tensione civile. Ci si è trovati davanti a una sfida che richiedeva l’attivazione di risorse psichiche e civili straordinarie. Patriottismo, canti dai balconi, torte di mele, tutorial di crossfit, riscoperta dei puzzle e dello smartworking. Ma questa sarà una maratona, non uno scatto da centometristi. Quanto durerà? Quanto ci vorrà per passare da #iorestoacasa e #andratuttobene a #governoladro o, per dire, #rivogliolamiavita? Quanto ci vorrà per individuare in Conte e nel Governo nuovi i capri espiatori? Quando la ricrescita dei capelli metterà in luce la nostra vera età anagrafica, ma soprattutto quando oltre a quello del distanziamento sociale arriverà l’impatto dei fallimenti, dei licenziamenti e della perdita di prospettiva di chi già si sentiva fragile da prima – e che aveva generato il rancore sociale da cui forse ci stavamo appena cominciando a riprendere – cosa succederà? E come sarà cavalcato politicamente? Quanto reggeranno non solo medici e infermieri, ma anche tutti quei lavoratori a cui chiediamo di non fermare i servizi essenziali che servono a noi che ce ne stiamo a casa? È bene porsi le domande per tempo, per non arrivare impreparati al momento in cui pensavamo che ne saremmo usciti migliori, e invece ci ritroveremo, oltre che imbolsiti, pure incattiviti.
L’emergenza sanitaria viene spesso narrata come una guerra; ma in breve assomiglierà più a una guerriglia. Una guerra a un certo punto finisce: si firma l’armistizio, il trattato di pace, fino al giorno prima si combatteva e poi non si combatte più, si comincia a pensare alla ricostruzione – in condizioni drammatiche e contando i morti, certo. Qui però non ci sarà un momento in cui qualcuno ci dirà ‘è finita’. Ci sarà uno stato di allerta che calerà di intensità, ma che si candida a permanere a lungo sotto la nostra pelle, con momenti di calo di tensione, poi nuovamente di allarme, poi di nuovo allentamento, ma con sospetto. Questo produrrà dei cambiamenti permanenti nei costumi sociali, nell’organizzazione dei servizi, non solo di quello sanitario (basti pensare ai mezzi di trasporto e alla scuola), nel modo di tracciare gli spostamenti e di controllare i cittadini. Diventeremo più selettivi e prudenti su tutto, perché ci porremo spesso il dilemma ‘vale la pena di correre il rischio’. Riorganizzeremo le nostre vite nel senso di un maggiore individualismo e di livelli di intolleranza più alti. Per quanto tempo l’altro’ rimarrà innanzitutto un inaffidabile potenziale portatore di contagio? Per non parlare del modo di produrre, di intendere i confini e gli scambi internazionali, l’Europa, il mondo globalizzato.
Domande che restano aperte: occorreranno nuove risposte e abbiamo qualche tempo per pensarci (ma non molto). Potrebbe essere una grande occasione per riorganizzare la società, i rapporti sociali ed economici, i nostri sistemi valoriali. Ma dovremo saper resistere a pifferai magici, spacciatori di verità di facile uso, postatori di stories di successo. E soprattutto a uomini della Provvidenza.