Nel cuore dell’antica Palestina: Galilea e Cisgiordania

Proseguiamo il viaggio in Israele attraversando le zone più intense e suggestive. Una terra dove non tutte le promesse si sono realizzate

20160820_112444-1Lo sherut impiega poco più di un’ora, sulla Route 77, per percorrere i 65 chilometri che separano Haifa e Tiberiade. Sul piccolo bus furgonato, uno dei trasporti più comuni in Israele, puoi incontrare anziane donne arabe con l’hijab, uomini con la kippah, rabbini, ragazze in licenza con gli shorts, il fucile e il berretto di leva e donne col techel, un turbante per ebree ortodosse sposate. Dai copricapi qui capisci un sacco di cose.

Ed è difficile, da queste parti, fare a meno di un copricapo. Le porte del minibus si aprono, il wi-fi e l’aria condizionata ti abbandonano, ti abbandona l’ombra dello sherut che riparte; e sei investito dal sole e da un blocco di calore, che ti lascia stordito e immobile. La gente percorre le strade a zigzag, portandosi da un negozio all’altro come si fa per ripararsi dalla pioggia, in cerca di un po’ di aria condizionata per sfidare la calura. L’appartamento più diroccato, la baracca del fabbro, la roulotte che fa da ufficio dello sfasciacarrozze: qui in Galilea, tra le pietre dove non è facile nemmeno piantare un albero, d’estate nessuna forma di vita potrebbe sopravvivere senza un condizionatore. Nel 1942 venne registrata la più alta temperatura di tutti i tempi in Asia: 53,9 gradi.

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Fiori e misteri del deserto

20160823_140244I pionieri sionisti arrivarono qui con l’idea di far fiorire il deserto. Portavano con sé l’entusiasmo della ritrovata Terra Promessa, dell’emancipazione dall’antisemitismo, di idee e organizzazione laico-socialiste. Fondavano kibbutz, che somigliavano tanto ai kolchoz sovietici, dove tutte le proprietà, dalla terra alle lenzuola, erano collettive, e lo studio della Torah non era così fondamentale, a volte perfino vietato. L’idea iniziale era quella di condividere la terra e la sua nuova primavera anche coi fratelli arabi dei villaggi. I quali ben presto si sentirono colonizzati da europei strambi sempre più numerosi che pian piano si compravano tutta la terra, e dalla modernità che irrompeva troppo di colpo con gli aumenti dei prezzi, la disoccupazione e altre cose prima sconosciute. La guerra non tardò ad arrivare.

In questa terra di pietre e sangue mille e novecento anni prima era nato Yashua, figlio di Yosef il falegname e di Maryam, che si diceva l’avesse avuto da un altro, e intorno al lago di Tiberiade aveva tutti i suoi seguaci più stretti. In ogni luogo della sua vita -la grotta dove è nato, il colle dove tenne un famoso discorso, la casa dove abitava, il punto da cui ascese al cielo, dove morì e fu sepolto- ci hanno piazzato un tempio. Ti aspetteresti chiese antiche, ma più spesso si tratta di quell’architettura in cemento armato, vetrate e marmittoni che fa tanto refettorio delle suore a Roma, che ingloba tutte le architetture precedenti come una matrioska.Cisgiordania Insomma, non è sempre facile cogliere l’antica rarefazione da cui scaturì quel mistero e metterla in relazione con il genius loci (un buon modo è quello di percorrere il Jesus Trail). Nemmeno sul lago di Tiberiade, le cui spiagge sono ingombre di rifiuti e pezzi di vetro e da cui si preleva tanta acqua da metterne a rischio il livello (quello medio, 210 metri sotto il livello del mare).

Il mistero però continua ad aleggiare, lo stesso e ovunque, lo senti a Magdala come a Nazareth, sul monte Tabor, tra le tombe dei sapienti ebrei a Tiberiade, tra i vicoli e le antiche sinagoghe di Safat, tra le macerie dei villaggi arabi bombardati nel 1948, dopo la fondazione dello Stato di Israele; e più a nord, nel Golan, ogni volta che si sente un katyusha di hezbollah lanciato dal Libano, preceduto dal suono delle sirene.

Stessa terra, altro mondo

20160825_101112Da qui la maggior parte dei tour organizzati percorre in bus la Route 90, lungo il fiume Giordano, per andare verso sud e mettere in fila Betania, Gerico e il Mar Morto, e poi piegare su Betlemme e  Gerusalemme. Noi invece decidiamo di attraversare il confine con i Territori Palestinesi a Jalameh. Camminiamo a lungo tra corridoi di rete metallica e filo spinato, in un deserto surreale, non si vedono soldati né impiegati doganali ma si percepisce che viene osservata ogni mossa, ogni possibile movimento sospetto; il lungo cammino serve ad agevolare l’invisibile osservatore. Cancelli si aprono e si chiudono da soli, voci all’altoparlante squarciano il silenzio dandoti istruzioni in inglese. I controlli sembrano pochi e superficiali, ma in realtà l’assenza di esseri umani serve ad evitare gli attentati, mentre ogni dettaglio è stato controllato a distanza con sistemi sofisticatissimi.

E così siamo in Cisgiordania, la famosa West Bank. Ad attenderci un grappolo di Mercedes nere con autisti appoggiati che fumano, fumano anche cumuli di immondizia e calcinacci tra le ultime recinzioni, fumano i resti di qualche copertone. Il taxi scende verso Jenin e gradualmente quel disordine sfuma in una nuova normalità. Sullo stesso paesaggio, sulle stesse pietre, sugli stessi colori di prima della frontiera ora si posano insediamenti più vari, più caotici, più colorati; palazzi pieni di parabole e fili elettrici, carretti, insegne in arabo e in inglese, meno verde, molto meno verde.

Cisgiordania

Capitiamo a Nablus il giorno in cui la polizia palestinese ha sparato durante dei disordini, un ragazzo è morto. C’è tensione, la notte ci sarà il coprifuoco. Al mercato vecchio, tra malandate fontane monumentali, banchi di verdura e manichini col velo, si sentono spari, degli svogliati soldati israeliani fanno cenno di allontanarsi. Ma i bambini sono eccitatissimi, si radunano tra i vicoli e giocano ad attraversare di corsa la zona pericolosa, appena i soldati si distraggono: una prova di coraggio che sa di confidenza con la guerra, con la violenza, con la morte. Alcuni si alzano la maglietta sul viso, forse per il fumo, forse per imitare i grandi. In quello spettacolo distopico sbuca un uomo con le buste della spesa, dall’aria lenta e per nulla turbata, che ci invita a casa sua dove ci offre caffè e pezzetti di mela e una conversazione in tutte le lingue e in nessuna. Ora c’è un surreale silenzio, si sente solo il muezzin. No no, non è pericoloso. Sì sì, succede sempre. Italiani, ah, Totti, F.C. Juventus, Berlusconi. Ho un cugino a Roma. Italiano, ok, amico. Ok, ok. Domani visitate la fabbrica del sapone all’olio di oliva. Dite che vi mando io.20160824_140042

Eppure il coprifuoco sembra solo un episodio. La normalità qui pare fatta di città più interessanti, certo più anarchiche, ragazze in jeans, cartelloni pubblicitari con donne senza velo, una quantità impressionante di giovani e l’orgoglio di pensarsi punta avanzata del mondo arabo, più cosmopolita, più laica, più aperta. Siamo a Ramallah, ormai alle porte di Gerusalemme. Chiedo da dove parte il bus per Al-Quds, usando il nome arabo perché temo di offendere qualcuno. Ma il venditore di pannocchie mi risponde: What? Ah, Jerusalem! Over there… Where are you from? Oh, Italy, Del Piero, ecc.

Ci sarà da varcare un altro muro. Poi entreremo nella città più antica, più celebrata e più contesa del mondo.

(III – Continua)

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