Firenze, Gotham City del medioevo
L’immagine letteraria di una Firenze luminosa e rinascimentale è piuttosto recente. Viaggio nel tempo e nei luoghi di prima della Capitale
Conoscere Firenze è un po’ come leggere la Divina Commedia o i Promessi Sposi. Non solo è un piacere visitarla, ma per tutto il mondo è essenza d’Italia, uno dei pilastri dell’identità nazionale, patrimonio comune di tutti gli italiani. Il Rinascimento, l’armonia, la misura e l’ordine, le arti la mano dell’uomo eccetera: questo, nell’immaginario comune, è il contributo di Firenze al nostro appartenere a una sorte comune chiamata Patria, in senso risorgimentale.
Solo che si tratta, almeno in parte, di un fake.
Se siete stati a Firenze più di una volta, nella vostra personale mappa mentale della città sono entrati non solo i monumenti di fama mondiale, ma anche i percorsi urbani per raggiungerli come i Viali, la centralissima via dei Calzaioli e le sue ampie parallele, la magniloquente Piazza della Repubblica e, come apoteosi, la sublime vista della città da piazzale Michelangelo, con i colli, la cupola del Brunelleschi e falangi di selfie-stick. Ebbene, questa immagine della città che ci si porta via passando anche per la rarefatta e metafisica Piazza della Stazione, è la risultante di un evento, relativamente recente e generalmente poco ricordato, che ha radicalmente trasformato la secolare fisionomia di Firenze, quella per la quale era famosa nel mondo.
Il trauma di Firenze Capitale
Firenze è infatti stata, per soli sei anni, riluttante Capitale d’Italia. Una reminiscenza dei libri di scuola, presto rimossa così come quello status provvisorio, che fu però gravida di conseguenze.
Dopo il 1861 l’Italia è quasi fatta. Manca Roma ma lì ci sono i francesi che proteggono il papa, e coi francesi non si può litigare, sarebbe come oggi dichiarare guerra all’America. I mangiarane però non possono più svenarsi per questioni romane, hanno la Prussia che incombe e il dubbio che quegli infidi di italiani ne approfittino per riprendersi Nizza e Savoia. Meglio allora allontanare la Capitale da Torino, troppo vicina ai confini. Ma dove? Per Roma serve più tempo per convincere il Papa. A Napoli meglio di no, è già stata capitale di un altro Stato ed è piena di nostalgici, oltre che di napoletani, e poi quando mai si è vista una capitale sul mare, troppo facilmente attaccabile.
La scelta è obbligata. Palazzo Reale, Corte, Governo, Ministeri, uffici con tutto il seguito di sedi di imprese, di agenzie, di torme di impiegati, giornalisti, affaristi, politici, curiosi, in tutto faranno almeni trentamila persone, tutti a Firenze. La bella e addormentata Firenze, che fino ad allora era vissuta in un limbo provinciale e sonnacchioso, compiaciuto come sempre, superbo e austero, poco più di centomila abitanti. Con un costo enorme, un grandioso spreco, dato il carattere temporaneo. Collodi rende l’idea scrivendo di una moglie che dopo essersi sposata controvoglia, sa che una mattina si sentirà dire dal marito: “Sai la notizia? Domani vado a metter casa a Roma”. La città non la prende bene.
In sei mesi è necessario improvvisare le sedi dei nuovi centri del potere. Il Re a Palazzo Pitti, ampio e non troppo centrale, che non si sa mai; il Parlamento nel Palazzo della Signoria e agli Uffizi; la Presidenza del Consiglio a Palazzo Medici-Riccardi, i Lavori Pubblici nel convento di Santa Maria Novella, e così via. Ma soprattutto si dà incarico all’architetto-ingegnere Giuseppe Poggi di ridisegnare Firenze, per renderla consona alla nuova condizione, tramite una serie di lavori ciclopici che sveneranno il comune. Che per questo, nel 1878, dichiarerà il fallimento e verrà commissariato: come dire, cornuti e mazziati.
Per prima cosa, si demoliscono le mura trecentesche di Arnolfo di Cambio, lasciando solo le porte: la città assume “l’aspetto livido e immondo di un animale scuoiato”; i detriti vengono usati come massicciata per i Viali di circonvallazione ampi 40 metri. Seguono l’abbattimento del Ghetto ebraico e del Mercato Vecchio, al loro posto una fredda e retorica Piazza Vittorio Emanuele, oggi Piazza della Repubblica; si allargano strette vie per destinarle al passeggio, ai caffè, alle carrozze e ai nuovi usi della modernità, come via dei Calzaioli e limitrofe; si crea il Viale dei Colli, abbattendo diverse fortezze, per arrivare alla nuova panoramica spianata di Piazzale Michelangelo; si tracciano i Lungarni e i relativi argini, con l’amputazione del fiume dalla vita della città. Arrivano i “buzzurri”, le esplosioni e la polvere delle demolizioni, i teatri, il clamore, la luce elettrica, le speculazioni, i nuovi quartieri a cavallo delle mura come il Maglio e la Mattonaia. Qualcuno propone perfino di demolire Ponte Vecchio, che ostacola le piene dell’Arno, ma S.M. il Re opporrà il veto.
La città oscura, “la sola vera Firenze”
Fino a quel brusco ingresso nella storia dell’Italia unita, di Firenze si era consolidata la fama di città immersa in una immobile e arcana armonia fatta, più che di luminose suggestioni rinascimentali, di un immaginario legato a un fosco e oscuro medioevo. Per i viaggiatori dell’epoca Firenze ha “una fisionomia imbronciata ed arcigna; i palazzi assomigliano a prigioni o a fortezze; l’architettura massiccia, seria, solida, parca di aperture, ha conservato tutta la sua medievale diffidenza”. Il piccone demolitore vuole infatti “far sparire le tortuose viuzze, gli immondi chiassuoli, le case cadenti, umide, malsane, che mettevano il centro di Firenze al livello di una città della Turchia asiatica”. Le torri, i palazzi, le case aggrappate ai monumenti, disegnavano dunque un intrico buio e denso di ombre, di mistero, di tumulto dei Pazzi o degli Strozzi, in una configurazione severa e oscura. I palazzi, militareschi e sospettosi, “salgono invano verso il sole, guardando arcigni sulle buie strade sottostanti”: questa è la “sola vera Firenze”. Quell’aria un po’ così che piaceva tanto agli stranieri e soprattutto agli inglesi, che venivano ad abitarci per fuggire dal caos delle città industriali. Qui ritrovavano quel gothic così pittoresco e familiare nella sua versione meridionale, che anni dopo sarebbe finito nei thriller di Dan Brown.
Tracce d’altri tempi
Di quella città sparita, misteriosa e oscura, resta oggi ancora qualche traccia. Se avete già visitato tutti i must del turismo contemporaneo, potete permettervi di camminare lungo l’unico tratto di mura ancora esistente, a Oltrarno, saltellando intra et extra muros lungo Viale Ludovico Ariosto; da quelle parti troverete anche le tracce di antiche funzioni urbane che era meglio tenere fuoriporta, come i gazometri e il cimitero ebraico. Oltrarno è anche il quartiere che più si è salvato dalle demolizioni, e girare per le vie anguste e nelle “cortacce strette e profonde come pozzi” intorno a Piazza Santo Spirito può dare una certa idea della Firenze popolare, oggi ben lontana da quel “miscuglio incredibile di gente povera e onesta, di braccianti occasionali e di avventurieri, di perdigiorno e di ladri immatricolati, di lenoni e di prostitute”, di accoltellamenti rusticani nelle osterie. Tornando sul Lungarno Acciaioli, sull’evocativa Piazza del Limbo, dov’era il cimitero dei bambini nati morti, affaccia a una quota troppo bassa per essere coeva ai dintorni la Chiesa dei Santi Apostoli, detta “Vecchio Duomo di Firenze”, una delle più antiche di Firenze. Pochi ci fanno caso, ma Via de’ Bentaccordi, presso Santa Croce, curva seguendo la traccia dell’antico anfiteatro romano, e poco più in là la gentrification fighetta legata al quartiere universitario non ha ancora alterato del tutto il colore del mercato di Sant’Ambrogio (mentre nell’altro mercato storico, quello di San Lorenzo, c’è Eataly).
Anche stavolta vi suggeriamo di coinvolgere tutti i sensi nella vostra ri-scoperta di Firenze; e per farlo bisogna passare per la pappa al pomodoro, la ribollita, il peposo, la trippa e il lampredotto. Nel centro le sedicenti osterie tipiche, sulle quali è caduto quel velo di finto verismo citazionista e compiaciuto, abbondano. Noi ne diffidiamo, a torto e a ragione, un po’ come si fa dinanzi a un negozio di souvenir, e vi mandiamo in quella che un tempo era periferia alla Trattoria da Burde, lungo la via che va a Pistoia.
In fondo, è solo nelle periferie che oggi sopravvive il centro, quello che oggi, dopo esser stato ridisegnato più volte nella storia per i più disparati usi, pare che serva solo ad essere visitato.