Pietrarsa, la fabbrica del vapore
Non bisogna per forza essere fissati con i treni per andare a vedere Il Museo Ferroviario di Pietrarsa, a Portici. Quel luogo racconta la storia incredibile del Miglio d’Oro, della Lega Italica che non vide mai la luce, dei greci e dei romani, di Ercolano e del Vesuvio che la cancellò, del Re Bomba e di un’innovazione tecnologica di cui il suo regno fu avanguardia in Italia.
Sono luoghi che parlano di fuoco. C’è del fuoco nel nome a Pietra Bianca, divenuta Pietrarsa nel 1631 per un’eruzione del Vesuvio che porta la lava fin lì. Parla di fuoco il molo Granatello, lì di fronte, che prende nome dai melograni che non ci sono più, inceneriti da quella eruzione: un porto settecentesco, costruito per dare ricovero alle galeotte reali e ai “gozzoni”. C’è fuoco e fumo il 3 ottobre 1839, quando da Portici parte la locomotiva Vesuvio con otto vagoni a 50 chilometri all’ora, con a bordo Ferdinando di Borbone Re delle Due Sicilie, la famiglia reale, 48 personalità e 170 militari tra ufficiali, fanti, artiglieri e marinai, e in nove minuti e mezzo arriva a Napoli, primo treno d’Italia. Il focoso re, detto Re Bomba perché durante i moti del 1848 aveva fatto bombardare Messina, ordina l’anno successivo di realizzare un Reale Opificio Meccanico e Pirotecnico tra la ferrovia e il molo Granatello, dal quale può essere rifornito via mare: ma non c’entrano i fuochi d’artificio, era una fabbrica di cannoni, bocche di fuoco, e di proiettili d’artiglieria.
Il re, che Treccani riassume così: “abile e onesto amministratore, fu gelosissimo dell’indipendenza del regno e finì per giungere a un isolamento internazionale che si rivelò pernicioso”, ha già avuto una storia di fumo e di fuoco con gli inglesi: per sottrarre loro il monopolio delle miniere di zolfo siciliane arriva a un passo dalla guerra, evitata solo grazie alla mediazione dei francesi. Non stupisce dunque che gli venga in mente di trasformare l’Opificio in una fabbrica di locomotive, visto che la Napoli-Portici, che sarebbe poi proseguita fino a Nocera, era realizzata da società e capitali francesi, la Bayard & Vergés, con materiale rotabile inglese costruito a Newcastle, nelle officine Longridge: “perché del braccio straniero a fabbricare macchine trainate dal vapore il Regno delle Due Sicilie più non abbisognasse”, spiega una guida turistica di Napoli del 1845.
È un grande successo. L’Opificio comincia prima a montare locomotive inglesi, utilizzando componenti costruiti in Inghilterra; poi, per editto di Ferdinando, ad occuparsi “della costruzione delle locomotive, nonché delle riparazioni e dei bisogni per le locomotive stesse degli accessori dei carri e dei wagons che percorreranno la nuova strada ferrata Napoli-Capua”, più o meno mezzo secolo prima che nascano la Fiat e la Breda. Già nel 1853 a Pietrarsa lavorano più di 700 operai. Il re, sulla cresta dell’onda, arriva a proporre una lega doganale e militare italiana, e da molti viene accreditato come il possibile unificatore d’Italia. Ma è troppo reazionario, come quel Pio IX che viene a visitare la fabbrica, così come lo zar Nicola I che la prende a modello per il complesso ferroviario di Kronstadt; non se ne farà niente, e quando sarà il papa a proporre una cooperazione tra stati italiani, sarà proprio Ferdinando a boicottarla.
Le cose cominciano a mettersi male proprio con l’Unità d’Italia. Ferdinando non c’è più e le prime gare per commesse pubbliche vedono l’Ansaldo di Genova più competitiva, perché nel frattempo l’Opificio viene rilevato da tale Jacopo Bozza, faccendiere. L’impianto avrebbe bisogno di crescere, ma stretto tra il mare e la ferrovia non può espandersi, né il Granatello può competere con la portualità dei grandi poli siderurgici nazionali. Ci sono tagli agli stipendi, licenziamenti, disordini e il primo eccidio di operai dell’Italia unita, sette morti e venti feriti gravi sotto il fuoco di bersaglieri e carabinieri. Dai mille operai del 1861 si arriva in soli due anni a meno della metà. Poi lo Stato ne assume la gestione diretta, e tra il 1867 e il 1888 vengono prodotte ancora ben 185 locomotive, 800 carri merci e 300 carrozze viaggiatori. Nel 1905 Pietrarsa diventa una delle Officine Grandi Riparazioni delle nuove Ferrovie dello Stato: la produzione si è definitivamente spostata a nord, qui si fa riparazione e manutenzione. Il vapore diventa diesel, poi elettrico. Fino al 1975. Poi si chiude.
Oggi, nella magnifica archeologia industriale dei sette padiglioni dell’Opificio, affacciato sul golfo di Napoli c’è un Museo che, guarda un po’, è facilissimo raggiungere in treno, anche con un biglietto unico. Lo stesso treno che passa radente la magnifica villa D’Elboeuf, la prima delle ville del Miglio d’Oro, separandola dal suo parco e avviandone la decadenza a partire da quel 1839, insieme al Bagno della Regina, prima architettura balneare d’Europa. Il treno corre lungo quella sottile striscia di lava che ha travolto Ercolano e che alza lo sguardo sul mare, mettendo in sequenza nel finestrino -come in un teatro ottico dell’ottocento- le cose più belle del mondo e quelle più brutte: il Vesuvio, lamiere, Ercolano, una vegetazione lussureggiante, Pompei, macchine abitate da galline, vivai, munnezza appicciata, serre, le ville neoclassiche, baracche e case mezze crollate colorate di eruzione, di terremoti e di panni stesi. Dall’altro lato, il golfo e le sue perle.
Direttamente sui binari, dunque, c’è il cancello di ingresso. Locomotive a vapore, giganti forgiati da Efesto di nero lucente, cerchi di legno pregiato, ottoni, il rostro per liberare i binari dalla neve, o dai tronchi, o dai lupi, locomotive americane arrivate fin qui chissà come, tedesche, inglesi, francesi, le littorine bombate nel loro bizzarro color del cappuccino; caldaie, la potenza del vapore, la rivoluzione industriale, manometri. semafori, le fonderie, Dickens, gli scioperi, macchinisti neri di calore e di fuliggine; il Treno Reale con la sala da pranzo e gli stucchi dorati, il Treno Presidenziale, dalla sobrietà repubblicana, il vagone-prigione, sedili in legno, sedili avveniristici secondo l’idea di avvenire che avevano negli anni ’60, le prime elettriche, il Pendolino e altri giganti nati per sfrecciare, oggi immobili; altri Miracoli Economici Italiani.
Fuori, in fondo a una prospettiva un po’ Pink Floyd, un po’ De Chirico, una grande statua in ghisa, alta quattro metri: la più grande statua in ghisa d’Europa, un altro primato. È lui, Ferdinando, nell’atto imperioso di indicare un luogo. Dopo il restauro avvenuto tra il 2014 e il 2017, il suo glorioso Opificio, dove la gente viene perfino a sposarsi, è ormai un cimitero di treni. Ma è magnifico. Il Re Bomba ne sarebbe fiero, nonostante tutto.