Viaggi nel gusto: le Storie della Vera Amatriciana
A LineaDiretta24 siamo consapevoli di imbarcarci questa volta in una questione spinosa, di quelle che possono dividere famiglie e porre fine a legami che sembravano indissolubili. Tuttavia, consci che la verità alle volte può risultare scomoda e generare conflitto, crediamo che il buon giornalismo debba anche affrontare grandi e scottanti temi. E che ci sono momenti in cui, anche se è faticoso, bisogna schierarsi. Noi qui non lo faremo direttamente, ma cercheremo di darvi gli elementi perché voi possiate farlo, in informata autonomia e con maturità di giudizio.
La questione è di quelle che fanno tremare i polsi: nella Vera Amatriciana il pomodoro ci va o non ci va?
E quella della vera Amatriciana è una questione solo culinaria, o può scomodare in realtà la storia, il territorio, la politica, i grandi ideali e financo la religione?
Intanto -e fin qui sono tutti d’accordo- Amatriciana o Matriciana vuol dire ‘di Amatrice‘; la pasta alla Amatriciana, dunque, è la pasta che fanno da secoli lassù, tra i monti un tempo noti come Abruzzi. I partigiani delle varie fazioni concordano almeno nel dire che l’amatriciana era il piatto dei pastori che, per otto o nove mesi l’anno, erano in transumanza con le pecore: perciò nella loro bisaccia finivano solo prodotti energetici, stagionati e facilmente trasportabili, come il pecorino amatriciano (meno salato di quello romano), il barbozzo o guanciale condito con pepe, e la pasta essiccata (mica potevano portarsi appresso le fettuccine, o i ravioli ripieni).
E il pomodoro? Il pomodoro, che viene dall’America, si diffonde molto lentamente in Europa. È certo, e negarlo sarebbe roba da terrapiattisti, che ancora nel seicento il suo uso nella nostra cucina era praticamente sconosciuto (e poi, ma scusate, un pomodoro in transumanza? come nella barzelletta dei pomodori che attraversano la strada).
Quindi, nel piatto che si preparano i nostri pastori amatriciani tra gli armenti fino almeno al XVIII secolo, del pomodoro non c’è traccia. La prima testimonianza scritta dell’uso del pomo americano per condire la pasta è nel manuale di cucina L’Apicio Moderno, di un tale di cui parleremo più avanti, del 1790. E all’epoca, il preparato amatriciano era noto come pasta alla gricia o griscia, da Grisciano, paese a nord di Amatrice, oggi frazione di Accumoli: stessi pastori, stessi ingredienti, stessa temperie.
Ma qui cominciano le dolorose divisioni. Mentre non c’è dubbio sull’uso del guanciale e giammai della pancetta, perché data la stagionatura il guanciale è più compatto, consistente e saporito, croccante quando fritto, gli esperti si dividono sull’arrivo del pomodoro: secondo alcuni giungerebbe con i Borbone e la loro famosa passione per la pummarola, quando nel 1735 acquisiscono vari feudi dell’Abruzzo Ulteriore al patrimonio del Re di Napoli, Amatrice compresa. Secondo altri il fatidico incontro avviene a Roma, nel rione Pigna, dove nello stesso periodo tra Vicolo de’ Matriciani e piazza Lancellotti si teneva il mercato di quelle strane genti che venivano dai monti Sibillini e dei loro prodotti (‘è arivato ‘n tipo strano, pareva ‘n matriciano‘, cioè uno straniero, un immigrato, un burino), e in particolare in una locanda con cucina chiamata L’Amatriciano, dove i suddetti albergavano quando in città.
Sarà che per Roma avrà pur girato qualche pomodoro, o qualche napoletano, fatto sta che nel 1816 Francesco Leonardi, cuoco di corte di Pio VII nonché autore del suddetto Apicio Moderno, per un banchetto in onore di Francesco I Imperatore d’Austria ha il colpo di genio, modernissimo per l’epoca, di proporre all’alta corte la reinvenzione di un piatto povero e popolare alla maniera dei matriciani: la vecchia gricia con l’aggiunta del nuovissimo pomodoro, una vera sciccheria à la mode. Il successo è clamoroso, vuoi perché anche l’occhio gode della sua parte con l’arrivo del rosso, vuoi perché il pomodoro avvolge il maccherone addolcendo la durezza della Montanea Aprutii e dei suoi sapori troppo decisi per i palati Imperialregi. In seguito arriverà il bucatino invece dello spaghetto, perché così un po’ di salsa gli entra anche dentro, e ogni sorta di variante, fino ad Ada Boni, non certo l’ultima cuoca, che nel suo Talismano della Felicità nel 1927 ammette perfino il parmigiano al posto del pecorino, e la cipolla per il soffritto. Ad Amatrice però non andò mai: l’avrebbero lapidata.
Chi diffuse il verbo matriciano presso le classi popolari a Roma fu invece una vera amatriciana, nel senso di donna di Amatrice, certa de Angelis Anna maritata Baiocchini, che nel 1870 arrivò dalle montagne e, tra la stazione Termini e il vicino mercato cominciò a preparare la pasta con mezzi di fortuna per gli ortolani. Era uno street food a tutti gli effetti, nel suo significato originario: emigrante, disperato, coraggioso. Anche quello fu un successo clamoroso, tutti volevano mangiare gli spaghetti di Anna la Matriciana, che così poté permettersi di aprire un locale davanti al teatro Costanzi, poi Teatro dell’Opera. Oggi è ancora lì per deliziarvi (il locale ovviamente, non Anna).
Si potrebbe continuare a lungo. Ad esempio, anche la carbonara viene considerata una variante della gricia, che sarebbe stata portata al suo massimo successo per gli Alleati, già abituati ad eggs and bacon, a Roma durante la guerra; e anche su questo tema, che qui sarà meglio non aprire, sono possibili cruente discussioni.
Noi speriamo di avervi invece fornito gli elementi essenziali per maturare un vostro personale convincimento, una rotta interiore, ed affrontare serenamente il mondo e i suoi dubbi, gli scontri, anche le delusioni che talvolta ci propone.
Che parteggiate per gli uni o per gli altri, pomodoro o senza, cipolla, aglio, parmigiano, spaghetti, maccheroni o bucatini, una cosa però ci sentiamo di suggerirvela, perchè le cose che ci uniscono siano sempre più forti delle cose che ci dividono. Il santuario mistico della Vera Amatriciana, l’Albergo Ristorante Roma di Amatrice, oggi non esiste più. La città si è organizzata, tra le altre cose, per tenere accesa la fiaccola della vita e dei suoi piaceri, nonostante tutto: andate al Villaggio del Food, il famoso polo del gusto con otto ristoranti, progettato da Stefano Boeri e realizzato grazie alla solidarietà del Friuli Venezia Giulia. Farete un regalo a voi stessi, e lo farete ad Amatrice e alle sue genti.
In fondo l’Amatriciana, in qualunque versione, è tutto merito loro.
Ps. Per ulteriori informazioni sulle Storie della Vera Amatriciana, andate qui.