Viaggi nel gusto: la farinata, essenza di Liguria

Fainà, Fainè, Cecina, Socca, Torta di ceci: sono solo alcuni dei nomi con cui la farinata di ceci è conosciuta nel mondo. E la sua storia, come la storia del cibo in generale e di quello italiano in particolare, ci racconta di viaggi navali, di battaglie e migrazioni, di scoperte casuali, di ristrettezze e di caratteri regionali, di scienza del piacere. E oggi, soprattutto di Liguria. Quindi, sia che ne siate ghiotti sia che non l’abbiate mai assaggiata, partite con Lineadiretta24 per un breve viaggio nel tempo, nel Mediterraneo ma non solo, e soprattutto nel gusto.

 

Intanto, visto che la sua distribuzione nel territorio nazionale non è uniforme, giova ricordare che la versione base della farinata è costituita da una schiacciata, cotta in forno, derivante da un impasto di farina di ceci, acqua e olio, condita da sale e rosmarino. Tutto qui. La schiacciata è sottilissima, diciamo un mezzo centimetro; eppure, se ben cotta, in quei pochi millimetri ci sono le parti superficiali dorate e croccanti, e un interno morbido, quasi cremoso. Un piatto in teoria semplicissimo, che come tutti i piatti semplicissimi è assai complicato da preparare al meglio.

Una storia travagliata

NoliOggi la farinata, diffusa nell’arco nord tirrenico italiano fino a Nizza compresa (perché Nizza era nostra, ci è pure nato Peppino Garibaldi che si disperò tanto quando venne ceduta alla Francia), ci fa pensare soprattutto alla Liguria; ed economica, parsimoniosa ma intensa com’è della Liguria riassume l’essenza. E ligure ne sarebbe l’invenzione: nel 1284, quando genovesi e pisani come al solito se le stanno dando di santa ragione, c’è la battaglia della Meloria, quella del conte Ugolino (quello che poi si mangiò i figli, dice Dante). I genovesi prevalgono e stracaricano le galee di prigionieri pisani, questi devono remare e qualcosa bisogna pur dargli da mangiare; ma non c’è niente, se non dei barili di ceci che durante una tempesta si rovesciano e si mischiano all’acqua salata: mangiatevi questo, dicono con scherno i genovesi, questo te lo mangi te, rispondono schifati i pisani, e lasciano l’orrenda poltiglia sui ponti; ma poi spunta il sole, la poltiglia si essicca ed ecco preparata la farinata, nientedimeno. I prigionieri pisani cambieranno idea.

TrioraSecondo altre versioni, meno accreditate, la casuale alchimia si sarebbe verificata duecento anni prima durante un assedio dei saraceni a Pisa, quando i pisani, non avendo più niente da gettare addosso agli assedianti, gli scagliano contro oltre a gatti morti, vasi di fiori e pitali rotti anche barili di ceci e olio bollente; e anche qui, quando poi i saraceni se ne vanno la sbobba rimasta a terra si secca al sole, e il popolo affamato non si fa troppi scrupoli. I ceci da noi avevano una storia antica, diversamente dai fagioli che arrivarono dopo la scoperta dell’America; era già un legume romano (cicer, presente anche nel nome di Cicerone che discendeva da un tale che aveva sul naso un bitorzolo grosso come un cece), di provenienza mesopotamica e mediorientale -dove ancora oggi va forte l’hummus-, adatto alla coltivazione in terreni semiaridi e, essiccato, facile da conservare e trasportare.

Più che una ricetta, una formula magica

Fosse così facile, invece, preparare la farinata.

ulivi-secolariInterpellate un ligure avveduto e chiedetegli come si prepara la farinata: ovviamente vi dirà che è innanzitutto una questione di ingredienti. Di olio ligure, quello di ulivi arrampicati sui terrazzamenti, che provateci voi a non far cadere nel burrone le olive di cultivar taggiasco, piccole piccole, a caricarvele su per la collina, ad arrivare al frantoio per carrarecce tortuose e riportarvi indietro un olio preziosissimo, da economizzare fino all’ultima lacrima, così intenso e profumato di mare – poi dice che i liguri sono tirchi. Di ceci macinati a pietra, mica le farine industriali sottilissime che paiono calce idrata; di acqua che scende giù ripida, leggera e povera di sodio dalle alpi marittime. E di sale e di rosmarino che sanno di salmastro, di golfi riparati, di sole e di spuma marina.

Ma non è che un buon inizio: poi l’impasto deve riposare tre ore, non di meno ma neanche di più, bisogna togliere la schiuma con un cucchiaio, si versa in una teglia in rame tonda come quelle che forgiavano i saraceni (testo deriva dall’arabo testooh, scudo), e fa una certa danza nel forno a legna per cuocere nel giusto modo (anche nel forno elettrico, ma è una danza più prosaica, tra due ripiani e il grill) e con i tempi giusti. Non è che uno segue il tutorial, proseguirà il ligure sapiente, e gli viene la farinata, belìn.

Dove cercarla (e trovarla)

VirginiaSe volete avere un’idea di come dev’essere la farinata perfetta, e se ci volete davvero sentire dentro tutto il ‘mare in salita’ della Liguria, dovete andare in pellegrinaggio “da Virginia” a Pietra Ligure, dove dal 1870 per i caruggi intorno a viale Mazzini (che allora si sarà chiamata in un altro modo) si spande il profumo di farinate e torte salate. Dai tempi della capostipite “muè Mummina” fino ad Anna Maria Vignaroli il prodotto vale la fila in strada –non è per questo che oggi lo chiamiamo street food? E non dite che siete a dieta: i ceci sono proteine, non carboidrati, e le calorie davvero poche (96 kCal per 100 grammi), a meno che non la condiate con stracchino, gorgonzola o salsiccia – e ne vale la pena…

 

La farinata segue i movimenti dei liguri nel mondo. A Nizza si chiama socca, la ritrovi come fainè in Sardegna a Carloforte, colonia ligure, ma anche a Gibilterra, dove è nota come calentita, Buenos Aires e a Montevideo (fainà); ma vi sconsigliamo di avventurarvi nella diatriba, tutta italiana, di discriminare la cecìna –la versione pisana- e la torta di ceci livornese dalla fainà ligure. Cadreste nella disputa sulle sue vere origini: la battaglia della Meloria non è poi così lontana nel tempo, e in Italia con certe cose non si sa mai.

 

Selfie Liguria

 

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