Paolo Pellegrin, al MAXXI un’emozionante retrospettiva dedicata al grande fotoreporter romano
Eraclito sosteneva che “L’intima natura delle cose ama nascondersi”, evidenziando quel velato mistero dell’Essere che uno dei più grandi fotografi del panorama internazionale come Paolo Pellegrin riesce poeticamente a svelare, rivelando soprattutto la più intrinseca e spirituale bellezza dell’essere umano nell’espressione delle sue emozioni più profonde, nelle condizioni di più estrema sofferenza, nella semplicità della quotidianità, ma anche nel suo atavico e complesso rapporto con la natura. Il MAXXI di Roma celebra finalmente l’intenso lavoro del grande fotoreporter dedicandogli una retrospettiva dal titolo Paolo Pellegrin. Un’Antologia, a cura di Germano Celant e visitabile fino al prossimo 10 marzo 2019.
Oltre 150 immagini del pluripremiato fotografo e membro di Magnum Photos dal 2005, ripercorrono vent’anni della sua feconda attività – dal 1998 al 2017 – una profondissima ricerca mai dedita solo al desiderio di carpire un’immagine iconica, risultando piuttosto un’indagine antropologica che pensa alla fotografia come ad un dialogo, un ponte con l’altro, “un vero e proprio linguaggio fatto allo stesso tempo di regole e d’istinto in cui il soggetto rimane sempre l’essere umano, le sue relazioni con i luoghi, gli avvenimenti, gli altri esseri”. Ecco qui che allora la fotografia si esprime nella sua massima potenza in una sorta di osmosi tra soggetto e linguaggio come solo i grandi artisti sanno fondere, dando vita a una “valanga travolgente” – come la definisce il curatore Germano Celant – in cui lo spettatore è completamente risucchiato da questa carrellata di immagini che raccontano uomini, guerre, emergenze umanitarie, così come il rapporto tra la fragile condizione umana e la potenza della natura. All’ingresso una grande parete, tragica e maestosa come una Guernica contemporanea, è dedicata alla battaglia di Mosul del 2016, seguita da una serie di immagini che parlano di violenza, prigionia, razza, povertà, crimine. Donne, bambini, soldati, profughi, rifugiati, migranti, rom; esseri che pregano, che piangono, che scappano, che combattono, immortalati in ogni angolo della terra in cui esistono tensioni e conflitti: negli Stati Uniti, a Gaza, a Guantanamo, a Beirut, a Tokyo, a Roma, a Lesbo. Uno spazio iniziale in cui domina il colore nero e la drammaticità degli eventi e a cui fa da contraltare l’immersione in un ambiente improvvisamente luminoso dominato dalla luce, dal candore del ghiaccio dell’Antartide, della potenza degli elementi della natura.
L’allestimento stesso della mostra è dunque una metafora spaziale del prolifico e sfaccettato lavoro di Paolo Pellegrin, un percorso coinvolgente che si articola tra i due estremi della fotografia e dell’esistenza: il buio e la luce. Le due parti sono collegate da un passaggio che è una sorta di making of della complessa ricerca di Pellegrin: una grandissima parete composta da disegni, taccuini e appunti che rendono l’idea del lungo lavoro di conoscenza, studio e preparazione che si cela dietro il processo creativo del fotografo, l’impulso e la riflessione dietro ogni suo singolo scatto, poiché l’approccio antropologico di Pellegrin non è semplice reportage e documentazione della realtà, quanto piuttosto – come la definisce Celant – una manifestazione dell’interpretazione personale che si alimenta di estetica e di espressività, di angoscia e di sofferenza, intendendo esplorare innanzitutto i limiti e i confini dell’umanità. Contesti e scenari al limite dell’esistere, sia della natura che dell’essere umano da cui Pellegrin riesce incredibilmente a far emergere la dimensione poetica, grazie alla sua capacità di partecipazione alle emozioni e agli eventi, al suo bianco e nero fortemente simbolico, alla sua penetrante e unica sensibilità estetica.
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