L’ammore nun’è ammore, al Piccolo Eliseo gli immortali sonetti di Shakespeare “traditi” in napoletano

“Amore non è amore, se muta quando scopre un mutamento
 o tende a svanire quando l’altro s’allontana.
Oh no! Amore è un faro sempre fisso
che sovrasta la tempesta e non vacilla mai;
è la stella-guida di ogni perduta barca,
il cui valore è sconosciuto, benché nota la distanza. […]”

L'ammore nun'è ammoreForse uno dei componimenti d’amore più celebri del Bardo, questi sono alcuni versi del sonetto 116, uno dei 154 Shakespeare’s Sonnets pubblicati nel 1609 e probabilmente scritti nel periodo in cui i teatri erano chiusi a causa della peste. Essi affrontano l’amore nelle sue forme più varie: dall’amore romantico all’erotismo, dalla passione alla tenerezza, tuttavia spaziando anche a profondi temi esistenziali come lo scorrere del tempo, la bellezza, la caducità del corpo e la mortalità. Versi potenti e immortali che da secoli conquistano e appassionano generazioni di lettori, così intensi e contemporanei da prestarsi ancora oggi alle più varie “traduzioni” e interpretazioni teatrali, pur nel rispetto dell’originale. Alla traduzione di 30 sonetti in napoletano, o meglio, al loro tradimento come lui stesso amava definirlo, il poeta Dario Jacobelli dedicò gli ultimi anni della sua vita, riformando i versi conservandone l’impianto metrico e l’intensità poetica, ma donando loro una veste nuova, a volte sanguigna, altre eversiva, trasformando la lingua del drammaturgo inglese in qualcosa di ancor più vivo, tanto che “a sentire questi versi per la prima volta, sembra che siano stati pensati e scritti proprio in napoletano”. A portarli sul palco del Piccolo Eliseo ci ha pensato Lino Musella accompagnato dalle musiche dal vivo di Marco Vidino, con lo spettacolo L’ammore nun’è ammore di cui è protagonista e regista e che resterà in cartellone fino al prossimo 23 settembre, nell’ambito del ricco Prologo di Stagione per il Centenario del Teatro Eliseo.

L'ammore nun'è ammoreSenza mai scivolare nel folklore, Musella fa rivivere i 30 sonetti scelti e tradotti da Jacobelli in modo quasi ipnotico, alternando il ritmo della grande commedia partenopea ai multipli registri della farsa, giocando con silenzi e parole, cantando, perdendosi tra il pubblico con gli occhi bendati, travestendosi e cambiando di continuo tono e identità, coinvolgendo il pubblico nelle più profonde (e comuni) sfumature del sentimento amoroso, sia esso platonico o decisamente più erotico. Ad una platea che non ha molta dimestichezza con la lingua napoletana, potrà sfuggire il significato di qualche parola, ma non certo l’intensità poetica di questi versi, così viscerali, così autentici.

I Sonetti shakespeariani cantati in napoletano acquistano così una vita propria, un’impetuosità che il ritmo e l’inflessione partenopea accentuano, rispettando l’originale anche quando sembrano più tradirlo. Ed “ecco che le liriche arrivano a noi rigenerate dimostrando che l’arte, quando è tale, si fa beffa dei secoli, delle latitudini e degli idiomi.

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@vale_gallinari