Olio di palma sostenibile: sul serio?

Avrete sicuramente già letto qualcosa sull’olio di palma e anche noi di lineadiretta24.it ne abbiamo parlato dal punto di vista della sicurezza alimentare. La questione più controversa legata a questo olio vegetale originario dell’Africa subsahariana, però, sembra essere ad oggi la deforestazione in larghe aree del sudest Asiatico. Sappiate da subito che nell’80 % dei casi, molto di ciò che oggi trovate scritto in merito a questo tema è figlio di uno studio, legato prettamente al territorio Indonesiano, condotto nel 2014 dalla dottoressa Belinda Arunarwati Margono, per conto dell’università del Maryland.

Dal 2000 al 2012 sarebbero più di 6 milioni gli ettari di foresta spazzati via per far posto alle coltivazioni di palme da olio. Un’area paragonabile a quella occupata dall’Irlanda; nell’ultimo anno preso a riferimento dall’indagine, l’Indonesia avrebbe superato il Brasile come primo paese al mondo per ettari di foresta tropicale distrutta. E ancora: emissioni di gas serra ai massimi livelli (terzo paese al mondo), deforestazione portata avanti per un 16% in aree protette e una proiezione di distruzione totale di tutto l’environment indonesiano entro il 2020.
La questione è molto delicata: in bilico c’è la terza foresta pluviale più estesa al mondo, un ambiente dall’incredibile biodiversità, rigoglioso contenitore del 12 % delle specie di mammiferi a livello globale.

Olio di palma sostenibile

Ma c’è chi la vede in modo differente: intervistato per conto dell’Unione Italiana Olio di Palma Sostenibile, il professor Carlo Alberto Pratesi ha rilasciato alcune interessanti dichiarazioni circa il reale peso specifico della querelle: l’argomentazione principale del docente risiederebbe in una sterilità complessiva dell’opera di boicottaggio portata avanti da qualche anno nei confronti del prodotto. Quest’azione, stando a quanto riportato, gioverebbe solo ad altri oli vegetali presenti in massa sul mercato mondiale, i quali, approfittando dell’improvvisa debolezza di un prodotto che ad oggi, occupa da solo il 36% della produzione mondiale tra tutti i suoi cugini (soia, colza, girasole ecc…) ricaverebbero enormi fortune.

Pratesi invita quindi il pubblico a fare affidamento sulla tavola rotonda per l’olio di palma sostenibile (RSPO), associazione dedita al miglioramento di condizioni ambientali e sociali nella filiera produttiva dell’olio di palma, tramite un’opera di certificazione verde delle attività. All’organizzazione hanno aderito negli anni 2500 operatori tra produttori (tra cui grandi multinazionali come Nestlè), associazioni ambientaliste (Wwf) e aziende della grande distribuzione. Secondo il professore la critica mossa a questo progetto di produzione sostenibile (giunto negli ultimi mesi in tutte le nostre case tramite questo) sarebbe ingiustificata dato che se da una parte è vero che i criteri di rilascio dei certificati siano migliorabili, dall’altra non si può di certo bocciare arbitrariamente ex ante i benefici di RSPO. A rafforzare le posizioni scientifiche del docente, vi sarebbe un dato, quello sulla resa per ettaro: «per produrre 3,47 tonnellate di olio di palma ci vuole un ettaro di terreno, una quantità 5 volte inferiore rispetto a quello necessario per la colza (qualcuno dice 7), 6 volte inferiore al girasole e ben 11 volte inferiore all’olio di oliva». Ergo, si deforesterebbe molto meno.

Ed è proprio da qui che muove la contro-tesi di Roberto Cazzolla Gatti, altro attore da prendere in considerazione in questo scontro scientifico con al centro il tanto odiato olio: secondo lo studioso specializzato in analisi della diversità biologica ed ecologia teoria e sperimentale, il suolo delle foreste tropicali sarebbe povero di micro-nutrienti e altre sostanze preziose per la longevità di un ciclo di coltivazione, dato che queste sarebbero tutte concentrate nelle torbiere in superficie. Questo comporterebbe un periodo di coltivazione relativamente breve (15 anni) se rapportato alle quantità richieste sul mercato.
Il problema, però, sarebbe anche di natura politico-amministrativa: i paesi del sud-est asiatico maggiori esportatori dell’olio di palma sostenibile non disporrebbero di registri inerenti lo stato del suolo e delle foreste. Questo fa sì che le deforestazioni sostenibili di cui parla Pratesi sarebbero in realtà un velo di maya, stracciato dalla bieca realtà di terreni, dichiarati interessanti per la coltivazione delle palme, disboscati e incendiati negli anni precedenti grazie all’opera di governi corrotti e alla carenza di un’efficiente controllo amministrativo sul territorio.

olio di palma sostenibile

Verrebbe da domandarsi a questo punto: d’accordo, eliminiamo l’olio di palma, sostenibile e non. Sostituiamolo. Ma con cosa? Con i suoi cugini, altri oli vegetali quali l’olio di semi di soia e quello di colza. I 3 maggiori produttori al mondo di olio di soia, preceduti solo dalla Cina (che comunque è costretta ad essere prima importatrice), sono nell’ordine Stati Uniti, Argentina e Brasile. Nel campo dell’olio di colza spiccano invece Germania, Francia, la stessa Cina, India, Inghilterra. Secondo dati forniti da oilworld, su un periodo che va dal 1995 al 2013 la produzione mondiale di olio di palma sarebbe cresciuta del 36% mentre quella dell’olio di soia (maggiore per quantità rispetto alla colza) del solo 28%. Ancor più marcati sono poi i dati sull’export: il tasso di crescita per quanto riguarda l’olio di palma ammonta al 50%, mentre l’olio di semi di soia si fermerebbe ad un 17%. E’ forse qui la ragione dell’ accanimento mediatico nei confronti di questo prodotto? Nel fatto che un mercato non riesce più a tener testa all’altro? Spunto di riflessione è anche l’emendamento approvato dal senato francese riguardante una tassazione supplementare sull’olio di palma sostenibile. Scelta dovuta ad una protezione sul mercato del proprio olio di colza?
Tutta questa fanfara intorno all’olio di palma sembrerebbe quindi uno scontro tra lobby figlio dell’ipocrisia: potenze commerciali come gli Usa, ree negli anni ’80 di guerre civili in regioni del contro-America (leggasi Guatemala) per il mercato delle banane, oggi fanno la morale ad altri; forze emergenti come Indonesia e Cina non rispettano l’ambiente, grazie a mezzi tecnologici assenti nell’industria di 60 anni fa, cercando giustificazioni morali per reggere (a ragione?) i loro nascenti asset commerciali. Cosa possiamo fare noi comuni mortali? Sicuramente una vita equilibrata, senza eccessi e lontana da quelli standard capitalistici di consumismo sfrenato,tesi unicamente a foraggiare un mondo malato che non è più sostenibile. A oriente come a occidente.

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