I liquidatori di Chernobyl, i dannati silenziosi
L’incipit di questo articolo potrebbe suonare come il più classico «trent’anni fa aveva luogo il disastro di Chernobyl» e molte altre frasi stereotipate. Ma partire da «trent’anni fa…» è un silenzioso palliativo utile a rimpolpare la rarefatta atmosfera di normalità in cui siamo sommersi nel 2018. No, serve qualcosa che dia una scossa alle coscienze e ricordi cosa è stato davvero l’incidente del quarto reattore della centrale nucleare di Chernobyl. Per farlo, non c’è arma migliore della testimonianza di chi, quell’incidente, se l’è ritrovato come un cappio stretto intorno alla gola.
Nella settimana immediatamente seguente le esplosioni all’interno del reattore, migliaia di uomini tra civili, militari, scienziati, medici e manovali, furono inviati sul luogo del disastro per tentare di ridurre i danni derivanti dalle esplosioni nel reattore. I liquidatori di Chernobyl. Fu questo il termine con cui quelle 600000 persone passarono alla storia. Il loro compito era liquidare la portata distruttiva delle scorie, con tutti i mezzi di fortuna che un territorio dell’ex Unione Sovietica poteva offrire a quei tempi. Spostamenti di oggetti contaminati in zone di “isolamento”; innalzamento di una copertura del nocciolo radioattivo con cemento, metalli, sabbia e gli stessi materiali radioattivi; sradicamento di alberi contaminati; e ancora, disinfestazione di animali contaminati, sostituzione di larghe parti di terreno e altre faticose opere, il tutto senza tute protettive e tramite utensili primitivi.
Ventotto pompieri presenti a Prypat in quel 26 aprile di trent’anni fa intervennero immediatamente: morirono tutti poco dopo. Le morti più silenziose, però, arrivarono nei mesi e negli anni successivi. Ad essere uccise dalle radiazioni non sono state solo persone, ma famiglie, storie e dignità umana.
La scrittrice Svetlana Aleksievic ha raccolto nel suo libro “preghiera per Chernobyl” la testimonianza della moglie di uno di quei 28 vigili del fuoco, Ljudmila Ignatenko: «In piena notte sento un rumore. Guardo dalla finestra. Lui mi vede: “Chiudi le soprafinestre e torna a dormire. C’è un incendio alla centrale. Tornerò presto”». Parole che riecheggiano come uno strano scherzo del destino: quella notte Vasilij Ignatenko è costretto per senso del dovere a spostare materiale radioattivo a pochi metri dal reattore.«il tetto della centrale era coperto di bitume. Più tardi lui mi racconterà che ci avevano camminato sopra ed era molle come la pece. Loro spegnevano le fiamme. Gettavano giù a pedate pezzi di grafite incendiati… Erano partiti così com’erano, in camicia, senza indossare la tuta protettiva. Non li aveva avvertiti nessuno, li avevano chiamati come per un normale incendio». Vasiliji a casa non ci è mai tornato. Così come molti altri liquidatori di Chernobyl. Viene portato direttamente in ospedale, ma a Ljudmila non è permesso entrare per assistere il marito. Alla fine, grazie ad una conoscente impiegata presso l’ospedale, la giovane donna entra e riconosce il marito in uno stato terribile: «L’ho visto… Tutto gonfio, tumefatto… Quasi non gli si vedevano più gli occhi… “Ci vuole del latte. Molto latte” mi ha detto la mia conoscente. “Devono berne almeno tre litri al giorno”. Oltre ad alcuni medici, molte infermiere e soprattutto ausiliarie di quell’ospedale di lì a qualche tempo si sarebbero ammalate… sarebbero morte… ma allora non lo sapeva nessuno…»
Già nessuno. Proprio come Vasiliji, tutti i liquidatori di Chernobyl che intervennero tempestivamente nei giorni che seguirono l’incidente, erano all’oscuro dei reali effetti delle radiazioni: gli unici a saperne qualcosa erano i militari. I 50000 abitanti di Prypat vennero coccolati come cuccioli di labrador, altrimenti sarebbe stata la guerra civile. Come si evince dalla stessa testimonianza di Ljudmila: « Nessuno parlava di radiazioni… Soltanto i militari indossavano delle maschere… I cittadini portavano a casa il pane comprato nei negozi: sporte piene di panini, aperte… I dolci erano esposti sui banconi, senza nessuna protezione… ».
I liquidatori di Chernobyl immolati dall’Urss vennero contrattualmente costretti a mantenere il silenzio, come testimoniato dal signor Pavel in un incontro tenutosi a Parma nel 2008:«Dopo quattro mesi sono tornato a casa, e ho dovuto firmare una carta impegnandomi a non rivelare a nessuno ciò che avevo visto nell’inferno di Chernobyl. In Unione Sovietica, allora, si usava così».
La notte del 27 aprile Vasilij Ignatenko viene portato a Mosca, insieme al resto dei liquidatori di Chernobyl. Quelli delle prime 24 ore, o meglio quelli ancora in vita. Ljudmila parte pochi giorni dopo per la capitale Russa e riesce ad incontrare il marito pochi giorni dopo grazie alla disponibilità di un medico. «Tutti i ragazzi erano stati separati, ognuno in una stanza per conto suo. Avevano loro categoricamente proibito di uscire in corridoio. Di avere dei contatti. Comunicavano battendo sulle pareti. Vicino ai loro letti le lancette dei contatori si bloccavano al massimo della scala già ad accostarli alle pareti. Avevano sgomberato tutto, non c’era più neanche un malato».
Di storie come questa ce ne sono altre migliaia. I liquidatori di Chernobyl, coloro che hanno dato vita alla copertura provvisoria del reattore (in parte a regime ancora oggi), se ne sono andati nel silenzio, totalmente ignari in quegli anni, della disgrazia cui stavano andando incontro.
Ciò che preme riportare alla memoria sono due ultimi estratti delle testimonianze di Ljudmila Ignatenko, angoscianti, se ci si ferma a riflettere sulla solitudine patita in quei giorni dalla giovane coppia: «Finché restavo con lui evitavano di farlo… Ma quando io non c’ero lo fotografavano… Indosso non aveva niente, coperto solo da un lenzuolino leggero»; e ancora: «Quando esco in corridoio dico all’infermiera: “Sta morendo”. E lei mi risponde: “E cosa credevi? Ha ricevuto milleseicento Rontgen quando la dose mortale è di quattrocento. Sei accanto a un reattore”…
Gli ultimi avvenimenti li ricordo a sprazzi. Passo la notte accanto a lui, sulla sediola… Alle otto gli dico: “Vase’ka, io vado”.