Corruzione: tutte le bugie che ci raccontano
- Il raccapricciante dato del costo della corruzione pari a 60 miliardi di euro è da sempre affibbiato alla Corte dei Conti: peccato che questa non abbia mai estrapolato tale cifra tramite un proprio studio o una propria valutazione: a dirlo non è l’autore di questa spuntata analisi ma il Presidente della stessa Corte il 6 marzo del 2014, con le seguenti parole «È impossibile stimare la ricaduta della corruzione sull’economia, qualsiasi stima è velleitaria. La corruzione va combattuta ma è impossibile pensare di stimarla. La Corte dei conti non ha mai detto che il fenomeno costa 60 miliardi». La storiella dei 60 miliardi arriverebbe direttamente dal Servizio anticorruzione e trasparenza creato presso il Dipartimento della funzione pubblica, all’epoca presieduto dal ministro per la pubblica amministrazione Renato Brunetta. La stima dei costi ex corruzione, all’epoca oscillante tra i 50 e i 60 milioni, fu contraddistinta dalla precisazione che si trattasse di stime, appunto, senza alcun fondamento scientifico. A ripeterlo è stato in più occasioni lo stesso Brunetta.
- Tali stime infondate vengono riprese addirittura dalla Commissione Europea, la quale, citando la Corte dei Conti, arriverebbe a dedurre che il nostro paese è responsabile della metà del costo della corruzione di tutta l’UE (stimato, non si sa su quali basi, in circa 120 miliardi di euro).
Ogniqualvolta vi ritroviate davanti a questi dati, sappiate quindi che è in corso un tentativo di terrorismo mediatico. Ma a che pro?
A scuola di anti-corruption
Nel 2016 ha avuto luogo un summit anti-corruzione a Londra, alla presenza del premier britannico Cameron, di vari leader occidentali, di esperti, accademici e molte altre personalità che da anni ormai disquisiscono sui mezzi più idonei per contrastare un fenomeno definito dallo stesso Primo Ministro britannico come “un cancro”.
Tutti impegnati intorno al tavolo di discussione, questi signori hanno innanzitutto basato le loro posizioni su un assunto ormai considerato inconfutabile da profani e non, ovvero su quella che è oggi “LA” definizione di corruzione: questa è stata fornita da un’associazione privata, la “Transparency International“, la quale riceve finanziamenti da vari governi degli stati “più virtuosi”, da multinazionali, oltre che da una serie di ONG ormai note alla cronaca come Open society di George Soros e National Endowment for democracy. La corruzione viene intesa come “l’abuso della pubblica fiducia per il guadagno privato”. Cosa si evince dalla definizione fornita da questa importante ong? Semplice, in un rapporto dove Corrotto e corruttore dovrebbero quantomeno condividere le stesse responsabilità (o giù di lì), transparency veicola quest’ultime univocamente sul funzionario pubblico, classificando il fenomeno corruttivo in:
- grande/ sproporzionato / imponente
- secondario
- politico
E quindi a seconda del ruolo e del grado che va assumendo il pubblico funzionario nei vari casi di corruzione. E’ la caccia alle streghe dell’inefficienza pubblica ai danni del nobile investitore estero, che vede la propria attività benefica intaccata dallo sporco impiegato comunale di un paese indietro nelle classifiche annuali della stessa Transparency.
Non dimenticate qualcosa?
Dunque nel corso di eventi come questi, i “buoni samaritani” della trasparenza fanno la lezioncina agli ultimi della classe. Il tutto su presupposti fissati da un’associazione privata fondata a Berlino che vede tra i propri finanziatori numerosi ministeri degli Esteri dei Paesi “più virtuosi” (come Gran Bretagna, Paesi Bassi, USA e Danimarca) oltre agli altri soggetti già citati. Abbiamo detto che ogni dissertazione parte da un preconcetto fallimentare: la definizione di corruzione coinciderebbe infatti con quella di concussione, fattispecie di reato dove la responsabilità del fatto pesa interamente sul pubblico ufficiale. Ma perché svuotare di ogni significato quello che in realtà è mera estrinsecazione di un mutuo consenso, di un accordo che, tra l’altro, trova spesso sede d’iniziativa proprio nel soggetto privato?
Probabilmente una delle numerose risposte plausibili per questo quesito è riposta in questo articolo del 2011 a firma Merrill Goozner: mentre i media del mainstream continuano a far correre sui propri network le leggende sulla corruzione (dalle quali poi in larga parte scaturiscono i risultati delle classifiche di transparency), i grandi casi legati a questo fenomeno, che vedono come protagoniste le grandi corporation mondiali, rimangono sotto il tappeto. Esempio ne sia la Siemens (società multata per 600 milioni di euro), o la vicenda legata ai Panama Papers, liquidata ben presto dai media.
E infatti proprio a margine del convegno anti-corruzione di Londra, sono arrivate le solite parole al miele da parte di Cameron, dettosi fiducioso per l’imminente avvio di registri pubblici per le società britanniche che abbiano la sede principale in paradisi fiscali offshore. Sono passati mesi e stiamo ancora aspettando, fiduciosi.
Quanto conta una classifica
Sappiamo quindi che Transparency stila ogni anno una classifica dei paesi più o meno colpiti dal fenomeno corruzione, utilizzando come metro di misura l’indice di percezione della corruzione (CPI). Secondo l’ultimo report fornito dalla nota ong, l’Italia si attesterebbe al penultimo posto in Europa per corruzione percepita e al pari di paesi come il Senegal o l’Oman nel mondo.
Numeri vuoti e senza significato, direte voi, dato che lo “studio” fa fede non solo esperienze dirette degli intervistati, ma anche a sensazioni indotte dalla stampa, magari da fenomeni (come la stessa storia dei 60 miliardi ndr) pompati all’inverosimile dai media o addirittura a esperienze raccontate da terzi e poi riportate nel corso dell’intervista che solitamente vede come protagonista un manager o un imprenditore.
Ma come fa egregiamente notare Elena Ciccarello sul Fatto Quotidiano (sebbene la riflessione a margine non sia altrettanto condivisibile da chi scrive, e tra poco vedremo il perchè), questi numeri astratti hanno una forte ripercussione sul mondo reale: «In assenza di solide alternative, l’indice di Transparency continua ad essere una delle misure più citate nei documenti istituzionali che orientano scelte politiche nazionali e internazionali. Basti qui ricordare, tra i più recenti, il report della Commissione Europea sulla corruzione del 2014, o il rapporto Ocse 2015 Curbing Corruption o, ancora, il report Doing Business della World Bank, che analizza tra 189 paesi al mondo le norme che favoriscono od ostacolano le attività di piccole e medie imprese».
Per intenderci: un’associazione privata, finanziata da governi caratterizzati da forti interessi finanziari in tutto il mondo, da multinazionali e da ONG altrettanto interessate alla grande finanza, in assenza di metodi scientifici affidabili ed efficaci, stila un rapporto basato sul nulla. Questo rapporto conferisce una credibilità ai paesi di tutto il mondo e contribuisce ad acuire una distinzione tra paesi di classe A e paesi di classe B. Nei paesi di serie B, come il nostro, la Grecia o il Portogallo, si diffonde l’idea che il settore pubblico sia ormai a pezzi e, quindi, meritevole di una ristrutturazione privata netta e decisa. Si tende quindi a tagliare la spesa pubblica e ad affidare ogni assets statale a grandi interessi finanziari che tronchino di netto la madre di tutti i problemi: la corruzione.
Corruzione ed economia reale
Ma come può influire il fenomeno corruzione sull’economia di un Paese? Ovviamente occorre sempre partire dalla premessa che i dati su cui ci si basa trattano impressioni degli intervistati e non esperienze dirette (quelle sembrerebbero dire tutt’altro). Ad ogni modo non ci sarebbe alcun nesso causale scientifico tra, ad esempio, CPI e debito pubblico di un paese: lo dimostra in maniera accessibile a chiunque Alberto Bagnai sul suo blog Goofynomics.
Stesso dicasi per quanto riguarda il rapporto tra CPI e crescita del PIL. L’avvocato Luigi Pecchioli riporta sul suo blog un interessante studio osservando che: «mentre per i Paesi in via di sviluppo la corruzione influisce sulla crescita del PIL con un moltiplicatore maggiore di 1, ovvero un aumento di 1 unità dell’indice di corruzione percepita (CPI) (aumento perché l’indice va da 10, zero corruzione, a 0, paese totalmente corrotto) corrisponde ad un tasso di crescita economica di 1,22% e dello 0,50% del PIL reale pro-capite, per i Paesi ad economia avanzata, come l’Italia, l’impatto, a parità di altri fattori, è molto meno rilevante, addirittura provoca un aumento solo dello 0,05% del tasso di crescita economica».
A dirlo non è soltanto una giovane ricercatrice della Bicocca di Milano, ma Foreign policy.
Qualcuno potrà gridare all’approssimazione: cosa dire invece di chi basa tutto su un dato che più approssimativo non si può (il CPI appunto)?
Conclusioni
Vi invitiamo a diffidare da chi inquadra il fenomeno corruttivo come il peggiore dei mali. Ciò vale per l’Italia come per la Spagna, la Grecia o il Portogallo. Ovviamente quello della corruzione è un problema da prendere con le pinze e curato attraverso medicine ben precise: medicine che, come riporta Luciano Barra Caracciolo sul suo blog Orizzonte48, non possono consistere in privatizzazioni selvagge degli assets del nostro Paese, mossa che porterebbe “soltanto” alla definitiva cessione di sovranità statale in mano a chi intende fare esclusivamente i propri interessi.
Occorre operare una distinzione tra i vari tipi di corruzione, non tutti vanno trattati allo stesso modo, non si può far di tutta l’erba un fascio: alcune fattispecie di corruzione infatti potrebbero addirittura risultare positive per l’economia. Citando lo stesso Caracciolo infatti: «Dal punto di vista economico la corruzione non è un male in sé, in quanto determina solo uno spostamento di ricchezze fra due soggetti ed al limite una diversa allocazione di risorse pubbliche, che non è detto sia meno efficiente. Bisogna infatti distinguere le cause e le conseguenze della corruzione: se chi corrompe lo fa per sveltire un iter che comunque si dovrebbe compiere, la corruzione ha addirittura un effetto positivo sul sistema. Questo è ad esempio il caso di un Paese in via di sviluppo con procedure decisionali poco efficienti, le quali vengono sveltite dalla c.d. mazzetta, che permette il raggiungimento dello scopo (che si sarebbe raggiunto ugualmente, come una commessa di acquisto di beni esteri) in un tempo minore».
L’economista coreano Han Joon Chang, autore del libro “Bad Samaritans: the myth of free trade and the secret history of capitalism” indicherebbe la ricetta da applicare alla corruzione essenzialmente nei seguenti punti:
- differenziare le varie fattispecie corruttive e adottare soluzioni separate
- necessità che i governi varano misure anti-corruzione non esclusivamente mercato-centriche, ma basate su principi di eguaglianza, con particolare attenzione per le classi più povere.
- rivoluzione radicale nel metodo di approccio al problema delle organizzazioni internazionali competenti in materia
Non facciamoci quindi intimidire da favole narrate unicamente per rimuovere gli ultimi fastidiosi ostacoli al libero mercato e facciamo molta attenzione alle notizie che i mass media tentano di propinarci giorno dopo giorno (alla faccia delle fake news!).
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