Il Debito pubblico? È colpa di un divorzio

Avete presente quella simpatica novella dove due malcapitati si ritrovano in una casa piena di dolci oltremodo appetitosi? Sì, quella dove il mondo sembra pieno di cose buone e deliziose finchè non appare una simpatica vecchietta per ricordargli che talvolta l’apparenza inganna: partirei da qui per rammentare ai lettori che ancora una volta il dibattito politico pre-elettorale ci ha parlato di caramelle mentre riservava quel gradevole farmaco solitamente assunto grazie a contrazioni antiperistaltiche dei muscoli del retto per il dopo elezioni.

È stata la campagna elettorale dei tagli e delle coperture: la sindrome della vecchietta è tutta qui, taglia e cuci sulla spesa pubblica (brutta e kattiva per definizione) e ottieni la trapuntina delle coperture (noncisonoisoldi!). Mentre questa simpatica nonnina tastava il pollice di chi se ne stava costretto dietro le sbarre della disinformazione, un lupo cattivo, molto cattivo, giganteggiava sui poveri elettori: il debito pubblico che “pesa sulle generazioni future”.

D’accordo, diamo momentaneamente per scontato che questo famigerato debito gravi sulle candide gote di ogni nascituro dell’italica penisola e iniziamo a chiederci: quando ha iniziato a crescere vertiginosamente? Qual è la causa di questo fenomeno? divorzio stato un divorzio. O se preferite una congiura:

con l’asta dei bot del luglio 1981 iniziava un nuovo regime di politica monetaria. Si inaugurava, infatti il cosiddetto “divorzio” fra tesoro e banca d’Italia: una “separazione dei beni”, che esimeva la seconda dal garantire in asta il collocamento integrale dei titoli offerti dal primo”.

Prima di quella fatidica estate del 1981 i buoni ordinari del tesoro (le obbligazioni che lo Stato emette periodicamente per finanziarsi) venivano offerti all’asta con un prezzo base fissato dal Ministero del Tesoro: la Banca d’Italia partecipava puntualmente alle aste attraverso una domanda che garantiva l’integrale collocamento dei titoli. Sapete cosa significa? Significa che garantendo lo scoperto (i titoli rimasti invenduti) la nostra Banca Centrale manteneva stabile il tasso d’interesse sul debito, consentendo così al Tesoro di finanziarsi relativamente a buon mercato.

E dopo? Nel 1979 un nuovo shock petrolifero (il primo risale al 1973) genera un notevole incremento dell’inflazione: l’aumento dei prezzi di una materia prima come il petrolio, provoca l’aumento dei prezzi di molti altri beni e servizi non solo nel nostro paese ma in molte nazioni a livello globale. Il panico suscitato da quest’evento portò a prevalere nella visione economica dell’epoca quella monetarista: Milton Friedman, capostipite di questa teoria economica di stampo neoclassico, era convinto che il livello d’inflazione fosse determinato dalla quantità di moneta presente nel sistema economico, in particolare dall’indicizzazione dei salari ai livelli d’inflazione corrente. Una follia per due ragioni: primo perché nel momento in cui devo fissare un prezzo, che io sia un fruttivendolo o una multinazionale, non mi preoccuperò della massa di moneta in circolazione, ma di altri fattori economici quali il costo delle materie prime, la strategia dei concorrenti, il livello della domanda sul mercato interno etc… In secondo luogo perché conoscere all’istante la massa monetaria presente nel sistema è tecnicamente impossibile. Oggi tutti i maggiori economisti a livello mondiale sanno che questa teoria è palesemente infondata, concetto sintetizzato dalla celebre frase di J.K. Galbraith:

la sfortuna di Friedman è che le sue teorie siano state messe in pratica”.

Questa strana idea (e ideologia) che l’inflazione fosse determinata dalla quantità di moneta in circolazione prevalse e vide soccombere la strategia economica keynesiana, interventista e assistenzialista, insita negli stessi dettami della nostra costituzione. Da qui parte l’opera di demonizzazione contro la spesa pubblica, sospettata di sostenere l’occupazione oltre il livello d’efficienza (deflattiva). Eppure nei lavori della costituente era ben chiaro che l’indirizzo economico della nostra Costituzione fosse orientato verso politiche di piena occupazione, da sostenere appunto attraverso l’intervento attivo dello stato nell’economia. Citiamo dai lavori della terza sottocommissione del 3 ottobre 1946:

“[…] Allo scopo di garantire il diritto al lavoro di tutti i cittadini – si dichiara nell’articolo lo Stato interverrà per coordinare e dirigere l’attività politica dei singoli e di tutta la Nazione secondo un piano che dia il massimo rendimento per la collettività. Quindi intervento dello Stato nella produzione, intervento cui si arriva attraverso la garanzia del diritto al lavoro”.

Nell’estate del 1981 si decise quindi che fosse giunto il momento di scindere la politica monetaria del tesoro dagli acquisti garantiti dalla Banca d’Italia, generando il cosiddetto “quarto potere”, quello monetario, affidato a un organismo indipendente dalla volontà politica. Gli effetti di questa scellerata decisione sono oggi sotto gli occhi di tutti: da quel momento, liberi dalla garanzia della Banca d’Italia di acquisto sull’invenduto, furono i mercati a determinare i tassi d’interesse sul nostro debito. Pensate che questo crebbe da valori negativi fino a raggiungere un picco dell’8% nel 1992. Quella che doveva essere una decisione presa per calmierare l’inflazione senza recar eccessivo danno alle classi subalterne, ottenne tutt’altro risultato: dal 1981 in poi il rapporto debito/pil esplode per via degli interessi crescenti e si passa dal 57,7% del 1980 al 124,3% del 1994. Ciò avviene non per causa di fenomeni come la corruzione, il malaffare, l’evasione o la millantata “kastah”, dinamiche contro cui oggi tutti si scagliano ma che esistevano anche ai tempi della pax augustea o del Vallo di Adriano. Piuttosto si innesca un meccanismo per il quale la spesa per interessi cresce vertiginosamente, mentre quella del fabbisogno primario si comprime: ad ammetterlo è uno dei due autori di questa oculata scelta politica:

i tassi d’interesse positivi in termini reali si tradussero rapidamente in un nuovo grave problema per la politica economica, aumentando il fabbisogno del Tesoro e l’escalation della crescita del debito rispetto al prodotto nazionale. Da quel momento la vita dei ministri del tesoro si era fatta più difficile […] Bisognava continuare a stringere le spese di competenza”.

 

Parole e musica di Beniamino Andreatta, Ministro del tesoro all’epoca del divorzio. “stringere le spese di competenza” significa tagliare le spese necessarie all’erogazione dei servizi pubblici essenziali (sanità, difesa, istruzione, sicurezza) per poter addivenire al pagamento dei crescenti interessi. Chiaro?

Il divorzio Banca d’Italia/tesoro risolse in fondo un conflitto distributivo. Sapete, ad alti livelli d’inflazione corrispondono bassi livelli di disoccupazione. È una legge economica ben salda come testimoniano le dinamiche della Curva di Phillips. La domanda di lavoro viene effettuata dalle imprese: se questa scarseggia, i lavoratori si accontenteranno di bassi salari avviandosi così un processo deflazionistico: non è un caso che il divorzio sia stato accompagnato dalla stagnazione del salario reale. Capite? L’alto tasso di disoccupazione, causato sia dallo sviamento degli investimenti dal circuito produttivo verso i titoli di stato, verso quel settore finanziario capace di offrire rendimenti molto più rapidi, elevati e sicuri, sia dal deterioramento dei consumi causato dal crescente disavanzo primario dello stato (più tasse e meno spesa per i servizi), ora impegnato a pagare salati interessi ai mercati, è stato utile ad abbassare i salari mentre la produttività continuava a crescere: tutto questo a beneficio di chi nel frattempo con quella produttività faceva profitti. A soli 5 anni dal divorzio il tasso di disoccupazione in Italia sale al 12%. Con l’esplosione di quest’ultima i lavoratori accettano lo smontaggio della scala mobile, mentre qualcuno gli raccontava la favoletta che l’inflazione sia il più grande dei mali per le classi subalterne. In realtà molto spesso quest’ultima è più temuta dai creditori, dalle classi dominanti: l’aumento dei prezzi permette infatti a questi di comprare meno beni rispetto all’iniziale momento di contrazione di un debito; al tempo stesso rimborsare il debito è per la pars accipiens più facile visto che il valore reale di quest’ultimo si riduce.

Dovete sapere che questo passaggio cruciale per le sorti politiche del nostro paese non giunse attraverso un processo democratico (e quindi per vie parlamentari, come d’altronde accaduto in altri paesi europei). No: giunse per via di una missiva, sì una vera e propria lettera inviata proprio da Andreatta all’allora governatore della Banca d’Italia, Carlo Azeglio Ciampi:

L’ imperativo era di cambiare il regime della politica economica e lo dovevo fare in una compagine ministeriale in cui non avevo alleati, ma colleghi ossessionati dall’ ideologia della crescita a ogni costo, sostenuta da bassi tassi di interesse reali e da un cambio debole.

Che cosa orribile la crescita, no?

Vi ricordate? Abbiamo parlato di congiura. Non prendete questo termine forte come frutto della fantasia di chi scrive: no, la congiura c’è stata, è stata preparata e ordita a regola d’arte e per questa ragione non poteva mancare una confessione dello stesso tenore. A distanza di dieci anni dal divorzio proprio Andreatta confessò attraverso le colonne del Sole24ore. Era il 26 luglio del 1991:

“il divorzio non ebbe allora il consenso politico, né lo avrebbe avuto negli anni seguenti; nato come “congiura aperta” tra il ministro e il governatore divenne, prima che la coalizione degli interessi contrari potesse organizzarsi, un fatto della vita che sarebbe stato troppo costoso – soprattutto sul mercato dei cambi – abolire per ritornare alle più confortevoli abitudini del passato.”

Come scrive Alberto Bagnai nel suo “il tramonto dell’euro”, il divorzio Banca d’italia-tesoro è stata l’occulta risoluzione di un conflitto distributivo che ha trasferito soldi dalle tasche dei contribuenti (per lo più lavoratori) a quelle dei detentori del debito pubblico (soprattutto istituzioni finanziarie).

Lo spettro dell’inflazione, ripeto, solo apparentemente causato da spesa pubblica improduttiva, indicizzazione dei salari e intervento dello Stato nell’economia, ha consentito ben altro nel corso degli anni ’80. Poco dopo il 1981 Federico Caffè rivelò a un suo studente: “speriamo che con l’acqua sporca (la corruzione) non lavino via anche il bambino (la crescita); prima di scomparire misteriosamente aggiunse: hanno buttato via il bambino con l’acqua sporca”.