Jacopo Michelini: “Metto nero su bianco le contraddizoni che pervadono la nostra contemporaneità”

Vi è una tendenza piuttosto diffusa di associare la musica d’autore a un’immagine vecchia e datata. E sebbene dal punto di vista anagrafico lo sia, da un po’ di tempo la ritroviamo in una veste nuova e brillante. Fra i membri della rinascita, vi è senza dubbio Jacopo Michelini, giovane cantautore bolognese. La sua musica si potrebbe collocare – come recita una sua canzone – “tra il pavimento e il tetto”, ovvero in una dimensione che, partendo dalla concretezza della realtà tangibile, si eleva verso l’alto, senza fermarsi. Profonda e calda, la voce di Jacopo Michelini è dotata di passionalità intensa, come intensi sono i versi che scrive. Riservato e introverso, chiacchierare con Jacopo è stato un viaggio nella pulsazione ardente del processo creativo.

“Se si parte dall’ideologia per scrivere una canzone, si sbaglia: bisogna partire da se stessi”, disse Giorgio Gaber. Qual è il tuo punto di partenza, Jacopo? Da dove nascono le tue canzoni?
A livello fisico, tendenzialmente nascono nella mia camera o a volte in macchina, quando vado a fare un giro lontano dalla città e mi immergo nel verde in compagnia della mia chitarra. L’ispirazione, invece, deriva da piccole cose, da uno stimolo di base come può esserlo uno sguardo con una sconosciuta o l’immagine di due ragazzi che si abbracciano sul ciglio di una strada. Dipende molto dal mio stato d’animo, da quello che sto vivendo in quel preciso momento della mia giornata. Le canzoni che scrivo sono biografiche e le immagini che catturo, diventano un pretesto per parlare di situazioni vissute e sensazioni provate, in un lungo flusso di coscienza. Scrivere, per me, è un metodo di auto – psicoanalisi, un monologo interiore che consente di entrare in contatto con il nostro io, fatto di forze e di debolezze. Oltre alla dimensione dell’intimo, nei miei testi, esiste anche quella più socialmente impegnata: vedo il malessere da cui è afflitta questa società e metto nero su bianco le contraddizioni che pervadono la nostra contemporaneità.

A breve uscirà il tuo album “Andrà tutto bene”, un titolo che sembrerebbe veicolare un messaggio positivo.

“Andrà tutto bene” è un augurio che faccio a me stesso. Deriva dalla terza traccia dell’album che, in ordine cronologico, è stata la prima con cui ho cominciato a lavorare in Fonoprint. Quando sono arrivato negli storici studi di registrazione di Bologna, siamo partiti proprio da questa canzone: l’abbiamo elaborata in dieci modi diversi, ma poi siamo tornati all’originale. Ha un messaggio chiaro e inequivocabile: andrà tutto bene, nonostante non ci siano avvocati per difendere le tue buone ragioni, non ci siano attestati per le notti in bianco a scrivere canzoni e sia sempre tu da solo con le tue maschere. Abbiamo lavorato circa due anni all’album, un periodo di gestazione che è coinciso anche con il mio percorso di maturazione personale nella scrittura sia della musica che dei testi. “Andrà tutto bene”, è un album che segue due filoni: uno sentimentale, con canzoni dedicate a una lei che di solito non c’è più (di solito quando non si sta male, siamo così concentrati sulla felicità, che non si scrivono le canzoni); l’altro, più introspettivo, che guarda il mondo attraverso gli occhi di un ventenne un po’ disilluso. Rispetto all’ottanta per cento dei dischi di oggi – il mio album – è tutto suonato: c’è una definizione dei suoni pazzesca, tra chitarre, basso, violino e via dicendo, cosa che è stata possibile grazie alla struttura in cui mi trovo. Fuori, sarebbe stato tutto decisamente più difficile.

“Un mondo da salvare” è il tuo nuovo singolo. Di cosa parla?

“Un mondo da salvare” è forse una delle mie canzoni preferite dell’album, quella più intima e romantica. Cattura la magia che nasce nei primi momenti in cui due persone si frequentano e si trovano bene insieme e, se sta nascendo qualcosa, si crea quella sorta di bolla di protezione che ti estranea da tutto il resto e dalle difficoltà del futuro. Una stanza che è anche un mondo, in cui il tuo spazio diventa anche quello dell’altra persona. E nessun altro può toccarlo. “Un mondo da salvare”, nasce da queste sensazioni.

Cosa ne pensi della musica d’autore?

Ogni qual volta si pensa al cantautorato, si è soliti associarlo a un qualcosa di pesante. Nello scenario comune, probabilmente la percezione è di elevato mentre – in realtà – non è una cosa che scegli, ma è lei che sceglie te, a prescindere dalla tua bravura. Qualche anno fa, in questo genere, c’è stato un momento di buio, con poche cose interessanti e relegate a certi ambienti. Oggi, in Italia, la musica d’autore si sta riscoprendo per cui anche artisti che arrivano da una scena più indipendente, raggiungono il grande pubblico.

Quali sono gli artisti che ti hanno ispirato e con chi ti piacerebbe collaborare?

Mio padre ha giocato un ruolo importante. Sin da piccolo, mi faceva ascoltare i dischi di Vasco Rossi e Lucio Battisti: sicuramente sono artisti che mi hanno ispirato e donato una certa visione della musica. Sono stati un primo approccio al genere. Crescendo – e con il sopraggiungere dell’adolescenza – ho divorato Rino Gaetano, Giorgio Gaber, Gino Paoli e, anche se diversi fra loro, ho preso da ognuno qualcosa che mi colpiva. Ma ce n’è stato uno, all’epoca, che mi ha segnato soprattutto a livello umano: Kurt Cobain. Oggi mi piacciono molto Brunori Sas, Calcutta, Canova, Gazzelle, Frah Quintale (che ho visto in concerto di recente e secondo me è uno dei più validi sulla scena), Coez, Thegiornalisti: questi sono soltanto alcuni nomi che mi vengono in mente ora. Ovviamente ho delle preferenze, ma in loro ho riscontrato un comune denominatore: l’identità nella scrittura, che consente di riconoscere la malinconia dell’uno e l’incazzatura dell’altro. Non si confondono e non si lasciano confondere. Questo è importante. Più che con un artista, mi piacerebbe collaborare con una band di musicisti lontani dal mio mondo, affinché la mia scrittura possa essere contaminata da fonti d’ispirazione diversa: il jazz, tipo.

Cosa pensi del sistema musicale attuale e cosa vorresti cambiare?

Vorrei cancellare i talent show e penso che questo basterebbe in parte a cambiare il modo di lavorare e di valorizzare l’arte anche in funzione di un punto di vista economico. La musica esiste perché genera profitti, e li ha generati per tanto tempo: da quando ciò non accade più, sono nati i talent, che però vanno a distruggere ciò che è veramente l’essenza della musica. Se n’è persa la visione, riducendosi sempre di più a un mero spettacolo e a un sottofondo dei centri commerciali. Ora, sebbene sia sbagliato puntare il dito soltanto contro i format televisivi, reputo allo stesso tempo che privino del percorso artistico di una persona, della sua crescita, della sua identità e soprattutto della gavetta in cui respira la polvere e il fumo delle sigarette dentro uno scantinato; del mettersi a imprecare per togliere cavetti e amplificatori alla fine di un concerto.

Sei nato e cresciuto nella città che ha dato i natali ad alcuni dei più grandi cantautori italiani: Bologna.

Sono molto felice di essere nato a Bologna: è una città che a livello culturale offre molto e consente uno scambio fra le per persone e un’impronta musicale che pochi altri posti favoriscono. Per un artista emergente non è così difficile trovare un locale in cui suonare perché c’è un tessuto sociale, un’apertura tale che ti mette in contatto con le altre e tante realtà. Dall’Unipol Arena al Locomotiv, passando da Il Covo, per un appassionato di musica Bologna rappresenta un crocevia importante.

 

 

https://www.youtube.com/watch?v=c4vV1gzGyCo%20

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@_mchiara