Gomorra raccontato da chi lo scrive
Giusto in tempo visto l’attualità dei fatti e il dibattito nazionale che si è creato. I magistrati da una parte, Gomorra dall’altra. Chi ha ragione? Chi ha torto? Se ci si avvicina alla vicenda in questo modo, commettiamo già un grandissimo errore. Perché, io credo, entrambi stanno dalla stessa parte e lavorano per la stesso obiettivo. Solo in maniera differente, ovviamente differente. Uno giuridico, l’altro rappresentativo. E più che altro la questione sembra assumere un altro taglio ovvero: è meglio demonizzare soltanto o è utile umanizzare? Proprio questo, a “Più libri più liberi”, è emerso dall’incontro, ma più che incontro una chiacchierata, con gli sceneggiatori di Gomorra, Maddalena Ravagli e Leonardo Fasoli, moderata dal giornalista di SkyTG24 Flavio Natalia.
L’INDIPENDENZA DAGLI STEREOTIPI NARRATIVI
L’incontro viene aperto da un contributo di qualche giorno fa di Roberto Saviano in merito ai recenti dibattiti e soprattutto in merito alla terza stagione. Dalle parole del creatore di Gomorra vengono fuori due concetti. Il primo riguarda più direttamente questa stagione in corso e il suo obiettivo. Saviano dice che c’è stata la volontà di allargare la visuale di Gomorra. Cioè non più il racconto di una Scampia, periferia degradata preda delle strutture organizzate criminali, ma il racconto di più Scampie, le Scampie d’Europa… come quella bulgara. L’obiettivo diventa quindi raccontare il potere criminale a livello europeo, anzi internazionale. Allargare la visuale per mostrare come Scampia non sia un caso isolato, ma sia il comune destino di tutte le periferie degradate dove lo Stato è quasi o del tutto assente e il degrado e le tragedie sono all’ordine del giorno. Il secondo concetto tocca da più vicino, invece, le vicende italiane… ovvero il fenomeno Gomorra. Saviano parla e lo definisce cortocircuito. Il ragionamento è questo: Gomorra ha svelato meccanismi che ci sono sempre stati mettendoli a disposizione di un pubblico vastissimo, quello stesso pubblico riconosce così alcuni meccanismi nella vita reale, che prima non riusciva a cogliere, e li mette in diretta correlazione con la serie convincendosi che sia stata la serie stessa a introdurli nella realtà, la cosiddetta emulazione di cui si parla tanto. Facendo ciò giudica negativamente il lavoro fatto da Gomorra. E Saviano sottolinea come questo ragionamento sia errato e in perfetta opposizione con quello da lui predicato. Appunto, un cortocircuito.
A questo punto la parola passa ai due sceneggiatori, Maddalena Ravagli e Leonardo Fasoli, che, come fossero una voce unica, rispondono alle accuse mosse dai vari magistrati e raccontano come nascono i personaggi di Gomorra.
Innanzitutto tutto parte dal punto di vista che si sceglie per raccontare gli eventi. E Gomorra, per l’impostazione che ha, non può che avere il punto di vista dei criminali. Da questo non si può prescindere. E per farlo bisogna entrare nella loro testa, guardare la realtà e il mondo coi loro occhi. Già questo di per sé comporta una visione delle cose sicuramente diversa da quella che potremmo avere se, appunto, si raccontassero gli eventi dal punto di vista dei magistrati o dei poliziotti. Così dicono Ravagli e Fasoli come a dire che l’immedesimazione fa parte del lavoro e discostarsene non garantirebbe l’effetto che vogliono ottenere. Ora, questo potrebbe essere un’arma a doppio taglio perché l’immedesimazione può portare all’affezione dei personaggi. Come combatterla? La loro ricetta è calare quei personaggi in una condizione di dannazione – così la definiscono – dove non c’è via di uscita e dove non c’è possibilità di alternativa. I personaggi muoiono, si arricchiscono ma senza godere quel lusso, vivono perennemente in una condizione di prigionia del loro mondo. In sintesi la loro diventa una vita di sottrazioni e di perdite, di vuoto assoluto e di solitudine estrema. Questo dovrebbe evitare l’affezione o meglio l’emulazione o ancora la simpatizzazione nei confronti dei protagonisti.
Ma c’è molto di più. Nella costruzione dei personaggi c’è alla base una volontà di mettere in luce una loro particolare e precipua condizione. Ravagli e Fasoli parlano di schizofrenia. Un concetto che è nato dopo che hanno conosciuto e parlato con persone che hanno vissuto veramente quel mondo e quelle tragiche vicende. Dalle conversazioni veniva fuori come il rapporto con il male, se così vogliamo definirlo, per queste persone fosse complesso e molto più profondo di quello che ci aspetteremmo. E questo gli sceneggiatori di Gomorra hanno voluto mettere in scena. Non la completa demonizzazione (più semplice e per niente ambigua), ma un’umanizzazione particolare, mutilata, scissa, appunto schizofrenica… molto più complessa e facilmente fraintendibile.
Questa, a parer mio, è la messa in pratica di come uscire dagli stereotipi, cercare di raccontare andando al di là dei luoghi comuni rischiando appunto di essere fraintesi, offrendo uno sguardo complesso su fatti di cronaca reale tentando di coglierne tutti gli aspetti. Che poi sia apprezzato o no, va in base anche a gusti personali, ma ciò non preclude il fatto che questo modo di raccontare stimoli alla riflessione, non solo sociale, ma più che altro individuale, oserei dire antropologica.
Twitter: @Francesco Nespoli