Alterego – Fabbrica dei diritti al fianco dei terremotati [INTERVISTA]
Alterego – Fabbrica dei diritti è un’associazione impegnata nell’ambito della tutela dei diritti fondamentali. Fortemente impegnata nei luoghi del terremoto a seguito delle scosse del 24 agosto e del 28-30 ottobre, offre uno sportello di legal service aperto a tutti. Noi abbiamo intervistato l’avocato Riccardo Bucci, responsabile del progetto, per capire con lui qual è la situazione oggi nelle aree colpite dal sisma.
Come nasce Alterego – Fabbrica dei diritti e perché?
Alterego nasce circa due anni fa come esperienza di studio legale con l’intento di portare avanti un’idea di diritto alternativa, un’assistenza legale proattiva sia offrendo ai nostri clienti le risposte ai loro quesiti, sia lavorando sull’informazione e la formazione dei clienti stessi ,magari comunicando loro novità che avrebbero poi potuto essere utili o interessanti. Questo presupponeva una conoscenza sempre maggiore del cliente che si rivolgeva a noi e di quelle che erano le sue necessità legali. Da questo primo approccio ci siamo resi conto che c’era una lacunosa conoscenza del diritto in generale e dei principi base che regolano la nostra società. Da qui abbiamo iniziato a concentrarci molto sull’informazione attraverso una sorta di “giornalismo legale”. L’obiettivo era quello di interessarci della realtà e raccontarla dal punto di vista delle norme. Quando ci fu poi il terremoto del 24 agosto 2016, nello specifico ad Amatrice, da una parte per motivi professionali dall’altra per motivi personali decidemmo di andare a sviluppare una conoscenza diretta dei luoghi dove quei diritti dovevano essere spiegati e anche garantiti. Partimmo quindi per Amatrice, io poi sono di Amatrice, e lì ci rendemmo conto che c’era urgenza di conoscere da parte dei cittadini quella legge che sarebbe andata a modificare le vite delle persone coinvolte.
Spesso in situazioni come quella del terremoto l’informazione è carente o romanzata. Un suo giudizio su questo e sul genere di risposte che invece voi cercate di dare ai cittadini?
Per quanto riguarda il sisma il fattore temporale è essenziale. C’è un momento iniziale dove prende forma questa visione romantica. Le persone sono più comprensive verso le istituzioni e si sente il bisogno di avere un conforto e una visione positiva per il futuro. Perciò inizialmente la genericità dell’informazione può essere utile a indorare la pillola, il classico “non vi lasceremo soli” per intenderci. Se però a questo non segue una vera vicinanza dello Stato, inizia ad esserci un generale sentimento di abbandono che rischia di trasformarsi in rabbia, rassegnazione e voglia di fuga. A questo punto se l’informazione non cambia e si mantiene generica diventa pericolosa. Io spesso porto quest’esempio per farmi capire: le macerie. Il tema è stato affrontato così: da una parte si diceva “tutte le macerie stanno ancora qui”, dall’altra lo Stato rispondeva “non è vero, le macerie le stiamo togliendo”. Detta così, sembra abbiano ragione entrambi. Nessuno spiega come funziona la gestione delle macerie. Infatti la demolizione degli edifici diroccati avverrà solo quando si attiverà il sistema del finanziamento agevolato per la ricostruzione della casa. La demolizione è infatti un momento previsto proprio all’interno dell’ordinanza sulla ricostruzione pesante, quindi le macerie che vengono immediatamente tolte sono quelle che lo Stato può immediatamente togliere, ovvero quelle attinenti agli edifici pubblici su cui non grava una proprietà privata.
Perché questo tipo di informazione non viene fornita ai cittadini dalle stesse istituzioni?
Dal punto di vista dei Comuni, perché il Comune è la prima istituzione con cui ovviamente il cittadino decide di interloquire, le situazioni sono state variegate. È evidente che i Comuni non hanno risposto in maniera preparata ma parliamo anche di piccole realtà, in cui il Comune non vive di un rapporto istituzionale con i cittadini. Talvolta erano i dipendenti pubblici a essere male informati rispetto alla normativa, altre volte è stato lo stesso ente comunale, pur piccolo, ad abusare del proprio potere. In altri casi, invece, è il Comune stesso ad essersi messo insieme ai cittadini, cercando di ragionare con loro. Le situazioni che si sono venute a creare sono eterogenee.
E qui è chiaro che vi inserite voi, le associazioni, cercando di sopperire a certe mancanze. Come rispondono i cittadini al vostro lavoro?
In un primo momento con grande diffidenza, è ovvio che essendo la nostra un’associazione extrastatale, la fiducia dei cittadini devi guadagnarla. La nostra fortuna è stata quella di affiancarci alle Brigate di Solidarietà Attiva, associazione di volontari che hanno subito portato assistenza e beni di prima necessità. Il coordinarsi con altre associazioni dà più forza e a quel punto entrambi acquisiamo credibilità. Quindi ad un primo momento di diffidenza si è sostituita una richiesta continua di pareri, informazioni ma soprattutto è stato ottimo riscontrare come dalla soluzione del problema individuale si è poi piano piano passati a una coscienza del cittadino che andava a capire che il suo problema era in realtà comune e più grande. Il passaparola poi ha permesso di creare una rete di informazione specifica su vari temi e abbiamo anche redatto un vademecum legale traducendo dal giuridichese a un linguaggio più chiaro il decreto terremoto e le varie ordinanze.
Molti amministratori locali lamentano lungaggini burocratiche, come si è arrivati a questa situazione di stallo?
Noi viviamo in uno stato di diritto che prevede un principio di separazione dei poteri. Quando accadono degli eventi di questo tipo (l’emergenza e quindi la dichiarazione dello stato d’emergenza) a livello legale avviene una contrazione di questo principio. La protezione civile interviene in emergenza, partono le ordinanze e il potere diventa accentrato. Non c’è più la partecipazione dato che è il decreto legislativo lo strumento che regolamenta nell’immediato quelle che sono le misure ad hoc. Parliamo di un decreto legislativo che difficilmente subirà sostanziali modifiche in sede di conversione perché effettivamente la situazione è emergenziale e quindi le decisioni vanno prese immediatamente. In questo caso poi si è scelto di non lasciare estremo potere ai sindaci e questo ha comportato che le decisioni venissero calate dall’alto con una mancanza di responsabilità da parte dei Comuni. Questo ha portato alla mancata conoscenza specifica dei territori e della cultura di quei territori.
Si può dire però che l’interlocuzione tra i tre livelli (comunale, regionale, statale) non ha funzionato?
Assolutamente. Per prima cosa, chi doveva fare o non ha fatto o ha fatto in ritardo. In secondo luogo, le strutture non hanno funzionato. Ad esempio, di tutta la normativa che prevede la pubblicazione di dati delle varie mappature dei territori d parte delle p.a. non ne è stata rispettata una. Se noi vogliamo sapere quante persone al momento prendono il CAS (contributo di autonoma sistemazione, ndr), non lo possiamo sapere perché mancano gli operatori, le risorse e la risposta il più delle volte è: “Non abbiamo le risorse per poter anonimizzare i dati”.
Che tipo di strumenti hanno i cittadini per difendersi dall’ostruzionismo delle istituzioni?
Il primo strumento che il cittadino ha sono i comitati. Ricordiamoci che politicamente e sociologicamente parlando, il terremotato vive uno stato particolare in Italia. Pensiamo a quando il popolo delle carriole dell’Aquila venne a Roma e ci fu una repressione violenta di quel movimento; una volta che il Governo arrivò a tanto immediatamente cambiò l’approccio di questo verso i comitati. Quindi il primo strumento di partecipazione popolare sono i comitati, che rappresentano quel territorio e che possono farsi sentire a livello istituzionale.
Invece, da un punto di vista legale?
Qui le soluzioni sono varie, intanto approfondire la conoscenza del diritto. Tutti noi abbiamo in questi giorni, a un anno dal sisma, sentito parlare di ritardi dello Stato rispetto alle promesse che erano state fatte. Giudizi, tanta rabbia, ma nessuno ha preso in considerazione il fatto che in diritto amministrativo esiste un danno da ritardo della pubblica amministrazione. Ciò significa che la p.a. ha 30 giorni, dall’atto amministrativo che prevede l’esecuzione di un determinato impegno, per realizzarlo. In questo caso c’è un diritto del cittadino che può essere e va tutelato. Noi stiamo valutando dei ricorsi che possano prevedere o un danno da ritardo della p.a. o un risarcimento del danno in maniera specifica (patrimoniale o non patrimoniale) nel caso in cui una persona ha richiesto il SAE (Sistemi Abitativi in Emergenza, ndr) e non è partito l’iter per la realizzazione del SAE. Oppure, un ricorso per portare a realizzare quello che andava realizzato attraverso lo strumento del giudizio di ottemperanza o della nomina del commissario ad acta. Questi sono gli strumenti giuridici per far fronte ai ritardi.
Toccando il tema ricostruzione, quali sono le fonti a cui si può attingere? Ci sono dei tempi e dei termini stabiliti?
In questo caso c’è tutto un iter che al momento non è stato messo in moto, quindi l’ordinanza sulla ricostruzione pesante e quella sulla ricostruzione leggera riferita agli edifici con danno B. Lo stesso “finanziamento agevolato” prevede dei tempi da normativa e sono dei tempi lunghissimi dal 2018 al 2047, perché il finanziamento stesso è concepito così, scaglionando le risorse con un limite massimo di 200 milioni l’anno utilizzabili. Il termine è nei 200 milioni l’anno e non si può andare oltre. Quello che oggi è fondamentale quindi, è la modifica del decreto legislativo e della normativa o una specifica da parte del Ministero del Tesoro su come intende superare questo limite. Il ruolo dei comitati e l’attivazione dei cittadini ha un peso di primo piano. Ma la soluzione in generale è una sola ed è politica: una legge unica sulle emergenza.
Voi avete formulato una proposta in merito, giusto?
Sì, noi stiamo lavorando su una proposta. Qui il discorso è che qualsiasi forma di emergenza, che comporti l’attivazione di uno stato di emergenza, utilizza come strumento il decreto legislativo che è uno strumento che si fa interprete della volontà di un governo. Ogni governo quindi tratterà sempre in maniera diversa l’emergenza. E da qui torniamo ai discorsi precedenti: come fa un dipendente di Amatrice ad avere chiara la conoscenza delle norme se ogni volta cambiano?
Tra l’altro non ci sono nemmeno dei piani di emergenza per la gestione delle ore immediatamente successive un’emergenza, o no?
Ci sono dei piani d’emergenza che risalgono a 40 anni fa perché non c’è stata un’applicazione delle norme legata al commissariamento dei Comuni se non aggiornavano i piani di emergenza. Oltre al fatto che i piani d’emergenza dei piccoli Comuni sono dei piani d’emergenza che lasciano tutto al caso, fondamentalmente identificando dei luoghi in cui radunare la popolazione e dove istallare il “quartier generale” della protezione civile. Ma il piano di emergenza invece, a seconda del nucleo urbano comunale, è diverso. Il piano di emergenza di Roma ha una previsione enorme di alternative, c’è uno studio dietro, ma perché è stato fatto? Perché politicamente su Roma si è scelto di farlo, non c’è nessuna legge che ti obbliga a fare così un piano d’emergenza. Quello che si è verificato ad Amatrice ad esempio è che sono arrivati moltissimi mezzi pesanti, e mentre per ore gli elicotteri hanno girato con i fari a cercare le frazioni, cercando di capire dove fossero, i mezzi di emergenza imboccando la Romanella si sono incastrati perché non ci passavano; perché l’unica strada che doveva rimanere in piedi era bloccata dal crollo di un ponte.
Parliamo dei CAS: in questo caso si tratta di un diritto azionabile dal cittadino?
Il CAS è un diritto soggettivo. Come il SAE, anche il CAS è un diritto soggettivo non condizionato da alcuna valutazione esterna se non alla presenza e al controllo da parte dei Comuni che vi siano quelle condizioni espresse per legge nelle quali il cittadino rientra. Non ci può essere alcun termine per richiedere il CAS. Una delle cose che sta accadendo in molti Comuni è che viene addirittura posto un termine per la richiesta dei SAE (moduli abitativi)! Non esiste un termine temporale per richiedere un SAE o per richiedere il CAS, c’è una condizione soggettiva. Io mi trovo in quella condizione? Quindi posso richiedere il SAE o il CAS, ne ho diritto.
E se da domani si scegliesse di interrompere il pagamento dei CAS, i cittadini avrebbero degli strumenti per agire?
Certo, basta un decreto ingiuntivo. A meno che però non sia la legge a prevedere l’eliminazione dei CAS, e infatti ad oggi la legge li condiziona alla durata dello stato d’emergenza: il CAS verrà corrisposto, a determinate condizioni, non oltre la dichiarazione dello stato d’emergenza. È ovvio che se ci fosse una disciplina definitiva a regolare l’erogazione dei CAS sarebbe diverso. Non dimentichiamo che il CAS però è uno strumento di prima emergenza, e che è finalizzato alla soluzione abitativa autonoma. Questo significa che una persona deve comunque sconvolgere la sua vita, perché deve trovare un affitto o deve spostarsi altrove, per questo il CAS è uno strumento importante, ma non è lo strumento più adatto a mantenere le persone su un determinato territorio. Quello che è importante sono le strutture di emergenza e una regolamentazione che permetta l’istallazione autonoma dei moduli abitativi.
In definitiva una legge unica sulle emergenze è fondamentale perché?
La legge sulle emergenze serve a stabilire una disciplina unica che tutti conoscono e che ogni Comune padroneggia. Andando poi a consentire quello che è democraticamente un processo normativo sul tema. Così, sarebbe possibile anche la formazione di una disciplina secondaria o i citati piani d’emergenza che permettono la mappatura del territorio. La microzonazione sismica è un elemento fondamentale anche per un piano d’emergenza, perché se io so quali zone del mio Comune sono più a rischio crolli e sul piano d’emergenza sono previste zone blu, rosse, gialle, utilizzerò lo strumento del sisma bonus se vedo la mia casa rientrare in una zona a forte rischio crollo. Pensiamo che con 31 miliardi si potrebbero mettere in sicurezza gran parte delle zone a rischio sismico più elevato e in 40 anni ne sono stati spesi 130 solo in ricostruzione (dati Ingegneria Senza Frontiere, ndr). Allora il discorso non è neanche economico, ciò che deve essere prevista è una disciplina unitaria.
Ultima domanda: qual è il suo giudizio sulla direzione di questo post-terremoto?
Credo che un grande limite sia stato l’accentramento totale delle decisioni e un mancato coinvolgimento dei Comuni, quanto meno nell’informazione. Cioè aprire dei tavoli con il territorio, naturalmente finita la fase di prima emergenza, dando la possibilità di partecipare alle associazioni locali. Questo avrebbe facilitato l’opera di controllo centrale e la realizzazione degli interventi dando modo ai cittadini di sentirsi parte di essi. Se poi preferisco un modello centralizzato o federativo nella gestione, torno al disegno di legge unica in cui è prevista una differenziazione di responsabilità e di poteri. Perché legge unica significa dire che chi può dare determinati dati li dà prima. Ad esempio i Comuni forniranno i dati che possono reperire più facilmente, le regioni si occuperanno di valutare i rischi più ampi sul territorio, fino ad arrivare a quei dati che attengono la gestione nazionale. A quel punto c’è una gestione diffusa più che federativa, dove ogni componente ha una specificità di vicinanza col territorio e di conoscenza di esso. A quel punto non c’è solo un potere d’azione ma anche un controllo su questo potere, che è fondamentale. Questa gestione invece è stata da un lato accentratrice, dall’altro deresponsabilizzante i Comuni che hanno solo il potere di individuare i luoghi dove pensano che possa nascere un villaggio SAE, senza però avere un potere effettivo perché la Regione può comunque fare di testa sua; oppure diventano la posta che eroga il CAS perché non hanno poteri di valutazione. Il discorso torna sul fatto che non essendoci un iter logico e unico, non c’è un controllo né una divisione delle competenze e questo alimenta la protesta, aprendo la via giudiziale che comporta ulteriori ritardi e spese a carico dello Stato.
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