Gli Oliver Twist di Hartz IV
Il periodo a cavallo tra il 1998 e il 2005 non verrà ricordato dai tedeschi come il più florido della propria storia: una crescita economica stagnante e un tasso di disoccupazione in costante aumento (arriverà a toccare un buon 11% nell’ultimo anno del periodo preso a riferimento) in netta controtendenza rispetto al resto d’Europa, non riusciranno a rendere il lasso temporale sopra menzionato un dolce ricordo per Berlino. Proprio per contrastare questo trend economico il Governo Schroeder decise di mettere appunto, grazie al lavoro di Peter Hartz, oggi conosciuto più per le sue condanne legali legate a mazzette e favori (portava gli amici sindacalisti a trans), la cosiddetta “agenda 2010”, una maxi-riforma del mercato del lavoro tedesco: tendenza alla flessibilità occupazionale attraverso i cosiddetti mini-job, rivisitazione del sistema pensionistico, riduzione della burocrazia e creazione di un nuovo sistema di sussidi e incentivi all’occupazione sono le più importanti misure contenute in questa rivoluzione del mercato del lavoro. Quest’ultima in particolare interessa la nostra trattazione: per combattere la disoccupazione incombente sul tessuto sociale tedesco, il legislatore decise di rifarsi alla filosofia tracciata dallo stesso cancelliere Gerard Schroeder:
«colui che può lavorare, ma non vuole, non ha alcun diritto alla solidarietà. Nella nostra società non esiste il diritto alla pigrizia».
Il risultato finale, conservato gelosamente dalle sacre stanze del Bundestag, fu il cosiddetto “Hartz IV”, una parte dell’ “Agenda zwanzig-zehn” mirata alla semplificazione di quegli incentivi capaci di indurre i disoccupati a cercare una nuova occupazione. Due i cambiamenti principali legati al tema sussidi: prima di questa riforma, il Governo tedesco offriva un assegno di disoccupazione della durata di 32 mesi, con Hartz IV questo termine viene ridotto a 12 mesi. L’esecutivo di Schroeder creò inoltre una seconda forma di “assistenza sociale”: scaduto l’assegno di disoccupazione, l’ex beneficiario viene sostentato con 409 euro mensili. Questa forma di sussidio forfettario unico è volgarmente denominata “Hartz IV”. Per continuare a beneficiarne, il cosiddetto “cliente” deve accettare qualsiasi tipo di lavoro gli venga offerto da uno dei 408 Jobscenter presenti in Germania.
Tali riforme sono servite a una ripresa economica della Germania? Si. Dal 2005 in poi il tasso di disoccupazione è nettamente calato (oggi si attesterebbe intorno al 3%), i costi di produzione sono stati abbattuti, le esportazioni sono decollate e Berlino si è così ritrovata tra le mani quel mastodontico surplus sulla bilancia dei pagamenti che ormai tutti abbiamo imparato a conoscere. Ma non è tutto oro ciò che luccica: basti ricordare che per finanziare le riforme Hartz, grazie alle quali gli industriali tedeschi godono da più di un decennio di un notevole calo del salario reale, lo Stato tedesco mise mano al portafogli, sforando quel 3% del rapporto deficit/pil con cui noi italiani veniamo continuamente richiamati all’ordine da Bruxelles. La spesa pubblica della cosiddetta “locomotiva d’Europa” passò da 923 a 1043 miliardi di Euro tra il 2000 e il 2003 e il grande capitale tedesco non lesinò ringraziamenti (Bagnai, 2012).
Mentre il boom macroeconomico contenta capitalisti, industriali e grandi imprese, una buona fetta di popolazione soffre in silenzio le pene e le sofferenze provocate dalle politiche di Hartz IV. I dati non raccontano infatti come un gran numero di cittadini tedeschi, seppur non più disoccupati, siano costretti a sostentarsi attraverso forme di lavoro precarie: mini-jobs, lavori a 1 euro e formazioni sono solo alcune delle figure legalizzate dalla Germania per rilanciare le proprie esportazioni. La riforma doveva flessibilizzare il mercato del lavoro per rispondere a uno shock: a distanza di anni ci si accorge che è servita esclusivamente a precarizzarlo. Un articolo di Olivier Cyran per “Le Monde Diplomatique” (lo trovate qui, grazie al prezioso lavoro di vocidallestero.it) svela interessanti retroscena circa il ruolo che i Jobs Center starebbero ricoprendo nella società tedesca a seguito delle riforme Hartz: come è stato già precisato, l’assistenza sociale forfettaria viene garantita a patto che i “clienti” (così vengono definiti i beneficiari) accettino qualsiasi tipo di lavoro venga loro proposto dagli stessi Job Center. In caso di rifiuto, il sussidio viene tagliato secondo un rigido sistema sanzionatorio. Questo comporta una gravosa ingerenza degli stessi centri per l’impiego nella vita di chi riceve il cosiddetto “Arbeitslosengeld II” (l’assistenza sociale di 409 Euro l’anno), dato che i primi vogliono accertarsi che il “cliente” stia facendo di tutto per trovare un nuovo impiego. Nel suo approfondimento Cyran parla di un caso in cui una delle 408 agenzie disseminate sul territorio avrebbe interrogato una donna nubile incinta circa “l’identità e la data di nascita dei suoi partner sessuali“. Questo è certamente un caso limite, ma non sono rari i controllo su spostamenti, trasferimenti di denaro e conti correnti.
A beneficiare di Hartz IV non sono solo gli adulti, ma anche i minori appartenenti a famiglie che ricevono il sussidio. I Job Center penetrano nella vita di questi ultimi, arrivando a suggerirgli l’orientamento verso un determinato settore nonostante questi siano ancora impegnati in un ciclo di studi: ovviamente, anche in questo caso, eludere gli incontri con le agenzie comporta un taglio dei viveri. L’associazione Paritatische Gesamtverband da anni si occupa del monitoraggio dei livelli di povertà in Germania. Con uno standard di povertà fissato sul 60% del reddito medio nazionale, le stime della PG rendono evidenti il trend di crescita di questo dato dal 2006 a oggi.
Basandosi sugli ultimi dati disponibili, riferiti al 2015, il Governo tedesco ha recentemente pubblicato uno studio incentrato sul livello di benessere delle famiglie, capace di evidenziare la presenza sul territorio nazionale di ben 2,8 milioni di bambini a rischio povertà. Se da una parte l’esecutivo ha tentato di occultare il dato giustificandolo con un’ingente aumento dei nuclei famigliari composti da immigrati, secondo Ulrich Schneider, Presidente di Paritatische Gesamtverband, questo mostruoso numero sarebbe per lo più dovuto alle politiche sociali introdotte con il pacchetto Hartz:
« [in Germania] per l’ennesimo anno si è assistito a un incremento del numero di bambini dipendenti dal sussidio di disoccupazione di Hartz IV. Se vivono sotto Hartz IV, i bambini prendono 8.30 euro al mese per materiale scolastico. Questa cifra non è stata alzata per anni. Naturale quindi concludere che il Governo non abbia fatto abbastanza».
I dati sembrano dar ragione a Schneider: almeno 2 milioni di bambini (circa il 18% dei minori presenti sul territorio) vivrebbero in famiglie beneficiarie dei sussidi di disoccupazione a lungo termine. Chi oggi beneficia di queste somme forfettarie convive quotidianamente con un complesso di inferiorità nei confronti di connazionali più facoltosi a causa di una logica che da sempre accompagna la società tedesca e che in questi ultimi anni si è particolarmente rafforzata. Logica perfettamente sintetizzata da Olivier Cyran grazie a una testimonianza raccolta sul campo per Le Monde Diplomatique:
«la stigmatizzazione dei disoccupati è tale da generare in loro un sentimento di vergogna quando si parla della loro situazione di fronte ad altri».
Questa patologia sociale si riverbera come un’onda d’urto sui minori, costretti a portare avanti un percorso di crescita irto e pieno di insidie: tra queste primeggia senza ombra di dubbio l’etichetta di “parassiti della società” affibiategli da una società annoverante tra i propri vicecancellieri un certo Franz Munefering, capace di dire nel maggio 2006 che «chi lavora, mangia». Crescere con un solo genitore o con 2 o più fratelli comporta statisticamente più difficoltà e la famiglia Schades presenta entrambe le caratteristiche: in un drammatico racconto prestato nel 2010 al De Spiegel, la signora Jacqueline, tre figli a carico e una vita complicata davanti, rese pubblico uno spaccato di Germania sconosciuto ai più, fatto di rinunce, sogni spezzati e sacrifici. Quel noto “stato ineludibile delle cose” (il “there is no alternative” di Tatcheriana memoria) imposto dall’ideologia neoliberista, ha portato le bambine della signora Schades a subire violenze psicologiche da parte di bambini appartenenti a famiglie più benestanti e a privarle di un’infanzia dignitosa.
Nel 2016 la Bertelsmann foundation ha pubblicato una ricerca dalla quale emergerebbe che questa fascia più povera di popolazione tedesca spesso non può garantire cibi freschi e di qualità ai propri figli: è proprio qui che le famiglie cercano di tagliare per fronteggiare le salate multe inflitte dai Job Center (nel 2016 si è registrato un prelievo medio di 108 euro per i beneficiari di Hartz IV) e questo avrebbe comportato vari casi di malnutrizione accompagnati da patologie. La stessa signora Schades raccontò al De Spiegel di essere costretta a percorrere lunghe distanze verso il confine polacco per poter acquistare beni alimentari dignitosi a prezzi più accessibili. In una recente intervista pubblicata da L’Espresso, Herfreid Munkler, politologo e docente di scienze politiche presso la Humboldt di Berlino, legge nel possibile successo elettorale di AFD (partito di estrema destra) non tanto i rapporti economici, quanto piuttosto il risentimento del tedesco medio: «Chi vota AFD lo fa perché si sente declassato e abbandonato dai partiti che, secondo lui, accordano privilegi ai rifugiati e non ai tedeschi che dalla nascita hanno il passaporto». Ciò che il professore tralascia sciaguratamente da parte nella sua chiave di lettura è il divario tra la spaventosa crescita tedesca nelle esportazioni (e quindi nella ricchezza immessa nel paese) e quella del salario reale: come riportato da Bagnai nella sua opera massima “Il Tramonto dell’Euro”, tra il 2003 e il 2009, mentre il tasso di crescita tedesco si gonfiava fino a raggiungere una media del 10,3%, il salario reale vide una flessione pari al 6%.
Come sovente è accaduto nella storia dell’uomo, per ogni difficoltà gravante sulle spalle di una struttura sociale occorre trovare un capro espiatorio: nell’ultimo decennio il dibattito televisivo tedesco ha giustificato le sofferenze di una larga sfera di cittadini tramite la fiaba della “ball and chain”: la favola vuole che il povero tedesco rappresenti il carcerato, le cui aspirazioni di rilancio e crescita sarebbero bloccate dalla palla al piede, quei popoli mediterranei corrotti, pigri e improduttivi capaci di rallentarne la corsa verso il benessere. In alternativa è sempre pronta sul tavolo, sul lato più destrorso per intenderci, la storia delle responsabilità univocamente gravanti sull’immigrato, responsabile supremo della grave carenza di welfare per le fasce più deboli della popolazione. Nessuno osa ricordare a chi è stato lasciato indietro dal liberismo e dalla globalizzazione quanto le riforme Hartz abbiano concentrato le ingenti risorse giunte grazie all’aumento delle esportazioni tedesche nelle mani di pochi. Ricchezze che oggi pesano come un macigno sulle spalle di chi, nel giro di un decennio, è rimasto vittima di uno spaventoso dumping salariale utile a rilanciare (barando) la macchina economica tedesca. Nel frattempo in Italia la grancassa mediatica insiste fervida nel rammentarci quanto certe riforme siano necessarie per la ripresa dell’economia: il modello preso a riferimento sono proprio le riforme Hartz, voi vi sentite pronti?
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