Scannasurice, la miseria del vivere nel sottosuolo di Napoli
Vincitore del premio della Critica 2015 come Miglior Spettacolo, Scannasurice è una struggente ed evocativa discesa nei sotterranei di una Napoli lontana da ogni cliché e stereotipo, è un viaggio cupo e disperato che si fa metafora dell’intera città partenopea, squallida e insieme di commovente e dolorosa bellezza, unica per il suo fascino e per ricchezza di suggestioni che non temono eguali. In scena al Teatro Piccolo Eliseo fino al prossimo 19 marzo, la drammaturgia di Scannasurice (letteralmente scanna topi) è stata scritta da Enzo Moscato nel 1982 a ridosso del devastante sisma dell’Irpinia i cui gravi crolli causarono quasi tremila morti e circa 280mila sfollati. Moscato ci restituisce dunque l’immagine di una città terremotata nella struttura, così come nella sua identità che, tra le macerie, i topi e gli elementi simbolo della sua condizione, cerca di trovare un posto nel mondo.
A portare in scena l’ambiguo personaggio di Scannasurice a oltre trent’anni dalla sua prima rappresentazione interpretata dallo stesso Moscato, è Carlo Cercielllo. Il regista napoletano dirige un’immensa Imma Villa che per sessanta minuti risucchia letteralmente lo spettatore all’interno del suo mondo nascosto: un fatiscente e buio tugurio, un mondo fatto di sporcizia, topi, bottiglie semivuote e sudici resti che la scenografia di Roberto Crea rende concretamente sul palcoscenico nella forma di una struttura labirintica di loculi nei cui spazi la protagonista si muove, si traveste e sveste velocemente, ma soprattutto racconta. Questo essere ambiguo e grottesco, il femminiello senza identità dei Quartieri Spagnoli, tratteggia con ironia e drammaticità le molteplici sfaccettature di una Napoli fatta di sofferenza, miseria, povertà ed emarginazione. Con lirismo e potenza riferisce di leggende, ricordi, filastrocche popolari, personaggi memorabili e di tutta quella simbologia archetipa di cui Napoli è carica: tarocchi, superstizione, antichi rituali, misteri, spiriti maligni, deciso odore di caffè che invade le strade e si infila nei cunicoli. Un intenso e cupo affresco restituito con la magia di quella lingua unica, quel dialetto poetico e musicale che diventa protagonista assoluto. Le evocazioni e le suggestioni raccontate non avrebbero infatti la stessa forza e convinzione se non fossero rivelate nella lingua napoletana a cui appartengono di diritto. L’incredibile bravura interpretativa di Imma Villa riesce poi a vivere la lingua come qualcosa di estremamente concreto, riuscendo a rendere al meglio tutte quelle sfumature e passaggi di tono che vanno dall’isteria all’estrema dolcezza, dal cinico al romanticismo.
Inchiodata a una solitudine e a una miseria senza rimedio, Scannasurice fonde e attraversa continuamente sacro e profano in un’alternanza di ritmi e sonorità travolgenti: è prima una madonna avvolta da un velo bianco e azzurro e un attimo dopo veste calze a rete, tacchi e pelliccia rossa per andare a prostituirsi, fino a spogliarsi di tutto, degli indumenti e di quel miserabile vuoto lasciato dalla devastazione tellurica, per andare incontro alla sua tragica sorte. Il femminiello si adagia in un angolo della sua topaia mentre le crepe del fondale si fanno spiragli di luce e i lumini votivi dei loculi fino a quel momento nascosti, si accendono in un bellissimo effetto scenografico, lasciandoci in bocca un misto di malinconia e stupore, ma anche la consapevolezza di aver assistito a qualcosa di sublime e autentico, che è penetrato fin dentro le ossa per non uscirne più.
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