La prossima guerra è sul Mar Glaciale Artico

Negli ultimi 30 anni la superficie della calotta polare è notevolmente diminuita: solo nel 2015 è stata registrata da satelliti Nasa un’area di estensione dei ghiacci pari a 4,41 milioni di chilometri quadrati, ovvero 1,81 milioni in meno rispetto alla media registrata dal 1981 al 2010, un dato che fa paura se si pensa che le dieci più basse rilevazioni di questo tipo si sono avute tutte negli ultimi 11 anni. E’ questo un fenomeno che rimbalza spesso attraverso i mezzi d’informazione, prevalentemente (e a ragione) in chiave ambientalistica, ma c’è un altro aspetto della questione da mettere in evidenza, spesso (volutamente?) trascurato dall’informazione occidentale e non di minore importanza: come si stanno muovendo le potenze regionali in merito a questo aspetto? C’è l’intenzione di spartirsi i territori dell’Artico, ci sono dei contrasti o c’è voglia di cooperare per preservare l’area? Proviamo a dare alcune risposte qui di seguito.

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Perchè la regione è importante?

Secondo gli studi conclusi nel 2008 dall’US Geological Survey, l’intera regione polare ospiterebbe sotto i propri ghiacci incredibili quantità di risorse naturali: si troverebbe qui infatti il 13% delle riserve petrolifere mondiali non esplorate, il 20% di gas liquido e il 30 % di gas naturale, mentre il valore di barili di greggio esportabili dalla regione è stato stimato per un ammontare pari a 90 miliardi di euro. Addirittura qualcuno stima che vi siano più idrocarburi qui che in tutta la penisola arabica.

Altro aspetto di interesse nell’osservazione dell’area sono le nuove rotte commerciali che questa offre per almeno sei mesi all’anno, date le condizioni climatiche avverse: la cosiddetta Northern Sea Route (NSR) permetterebbe alle navi cargo provenienti dalle coste asiatiche di raggiungere i porti commerciali del nord-Europa in molto meno tempo rispetto a quello che si impiega attraversando il canale di Suez o doppiando il Capo di Buona Speranza. Per di più senza quel cancro che per le rotte internazionali oggi la pirateria rappresenta.

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Il regime giuridico vigente

Nel 1981 venne messa a punto la prima forma di statuto giuridico inerente la questione artica: la convenzione di Montego bay. Secondo l’accordo, gli stati firmatari potranno vantare diritti esclusivi di sfruttamento delle risorse naturali in un’area pari a 200 miglia dal limite di 12 miglia che segna le acque territoriali di ciascuna nazione. Il vulnus della questione è però lo sfruttamento delle risorse naturali non viventi: per farla breve, se uno degli stati che vantano un tratto di costa sull’artico (cosiddetti rivieraschi) riesce a dimostrare, attraverso studi ed analisi approfondite, che la piattaforma continentale oggetto dei desideri è il naturale prolungamento sommerso della terraferma del continente, può sfruttare le risorse minerarie in essa presenti fino ad un limite di 350 miglia dalle proprie acque territoriali.

Gli stati che si affacciano sull’Artico (Canada, Stati Uniti, Islanda, Norvegia, Svezia, Finlandia, Russia e Danimarca) fanno inoltre parte dell’Arctic Council, organo internazionale per la cooperazione in materie sensibili legate all’area come ambiente e sviluppo sostenibile. Al momento gli unici tra questi attori internazionali a non aver ratificato la convenzione sono gli Stati Uniti, i quali premono (accompagnati da ONG come greenpeace) per un’internazionalizzazione dell’area. Scelta comprensibile dato che il rischio di una Russia dominante sulla scena artica, tramite l’annessione di larghe porzioni di territorio polare, è elevatissimo.

 

La corsa all’oro…

Mosca lavora dunque in senso opposto rispetto agli Stati Uniti: quattro anni dopo la ratifica della convenzione Unclos, avvenuta nel 1997, i sovietici sono stati i primi a presentare quegli studi di cui sopra, tesi alla rivendicazione dei diritti esclusivi sulle risorse della piattaforme continentali Lomonosov e Mendelev. La commissione istituita presso le Nazioni Unite ha accettato la richiesta, salvo poi lamentare nel 2003 una carenza notevole nella documentazione approntata. Nel 2013 è toccato al Canada, grazie ad uno studio di un costo pari a 200 milioni di dollari (circa quattro volte la cifra investita dai Russi 12 anni prima), avanzare le proprie rivendicazioni presso l’Onu, mentre nel 2014 è stato il turno della Danimarca (la Groenlandia è infatti una nazione del regno Danese). Ad oggi però nessuno è ancora riuscito ad ottenere risultati di alcun tipo.

La stessa Cina ha avanzato interessi verso l’Artico: in ottica Russa, Pechino è il più interessato tra i competitor a pesanti investimenti nella nuova rotta commerciale e potenzialmente è in grado di sostituire i capitali occidentali ormai ritirati in seguito alle recenti frizione tra Stati atlantisti e Mosca. Putin ha richiamato nel 2013 l’attenzione dei mercati orientali sulle opportunità che questi potrebbero trarre dallo sviluppo della regione artica, trovando la piena risposta di questi ultimi e lo stesso ha fatto il ministro della difesa Russo Dmitry Rogozin, invitando i partners cinesi a partecipare allo sviluppo di linee ferroviarie per il trasporto di merci nel dicembre prossimo.

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…e quella alle armi.

Ma in questa grande corsa all’oro, dagli esiti giuridici, geologici ed economici incerti, tutte le nazioni coinvolte stanno adottando, da alcuni anni a questa parte, le dovute precauzioni. Da un lato infatti vi è un fronte atlantista “capeggiato” dagli Usa che, consapevole della forza Russa dal punto di vista territoriale e giuridico (in quanto ad esempio, secondo la giurisdizione Russa, soltanto i mezzi della federazione possono prestare assistenza a chi transita nella NSR), schiera in Alaska 25000 militari, installa uno scudo anti-missile in vari punti strategici (tra cui la base Nato di Thule, in Groenlandia) e sorvola il territorio Russo tramite l’uso di circa 90 satelliti. Senza dimenticare droni, il sistema Muos e varie unità navali e di aeronautica. Dal canto suo Mosca sta rispondendo da qualche anno con la messa a nuovo di varie basi militari, aeronautiche e navali cadute in disuso dopo la fine dell’era sovietica, e un generale restyling del suo apparato bellico.

E’ inoltre da prendere in considerazione il dato che ben cinque degli otto paesi appartenenti al forum del Consiglio Artico sono membri Nato: Norvegia, Danimarca, Canada, Islanda ed ovviamente Stati Uniti. Statistica che potrebbe causare una rottura di equilibri in un prossimo futuro, qualora gli Stati Uniti riuscissero a trascinare dalla loro parte anche stati neutrali come Finlandia (missione per ora riuscita e a detta di molti, senza il consenso popolare) e Svezia.

E adesso? 

Siamo quindi alle solite: ogni anno partono conferenze sul clima, le più grandi autorità mondiali ripetono la solita filastrocca della pace tra i popoli e il rispetto per l’ambiente mentre all’orizzonte si staglia l’eterno conflitto per il potere economico e strategico. Volendoci abbandonare a questa concezione dell’umanità, la Russia al momento è avanti rispetto agli antagonisti regionali, dato che il 9 febbraio del 2016 il Cremlino ha presentato all’Onu una richiesta analoga a quella fatta nel 2001, ma stavolta molto più dettagliata e meritevole di buon esito secondo vari analisti. Ci vorrà del tempo prima che questa venga esaminata dalla commissione permanente presso le Nazioni Unite ma gli Usa, che come afferma lo stesso John Kerry monitorano gli Stati che avanzano rivendicazioni sull’Artico, stanno approntando varie migliorie al settore militare, consci che non possono permettersi una piena appropriazione delle risorse da parte del nemico Russo.

L’area è quindi oggi molto attiva: droni, spie, Rompighiaccio (ma solo quelle che battono bandiera Russa sono flotte nucleari), team scientifici e compagnie petrolifere (Rosneft nel 2014 annuncia un sito petrolifero nel mar di Kara da cui estrarre potenzialmente ben 87 miliardi di barili). I presupposti affinchè i 7 mari dell’Artico siano il prossimo teatro della hybris umana ci sono tutti e la sensazione è che il momento di rottura sia ormai sempre più vicino.

 

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