La Mite, César Brie porta in scena Dostoëvskij
Si accendono le luci e sul palco appaiono un uomo disperato e la sua giovane moglie che si è appena tolta la vita gettandosi da una finestra. Alle loro spalle un manichino, ovvero il corpo senza vita della donna al quale il marito si rivolge affranto, cercando di capire le oscure motivazioni che hanno portato la ragazza a porre fine alla sua esistenza. Questa la storia de La Mite, l’ultimo struggente e poetico spettacolo del regista argentino César Brie, portato in scena al Teatro dell’Orologio dalla Compagnia Teatro Presente. Liberamente tratto dall’omonimo racconto di Fëdor Dostoëvskij scritto nel 1876 in seguito ad un fatto di cronaca definito dalla stampa dell’epoca come un “suicidio mite”, questa drammaturgia fatta di amore e morte, ma anche di colpa e di pietà, appare come un sorta di manifesto dell’incomunicabilità, dove ancor più di una pistola o di una lama di coltello, è il silenzio la più spietata arma del delitto.
Brie trasforma il disperato soliloquio del vedovo davanti al cadavere della moglie narrato nel testo originale, in una messinscena dove a parlare sono entrambi i protagonisti: l’usuraio (Daniele Cavone Felicioni) e la sua giovane moglie (Clelia Cicero) ricordano e raccontano al pubblico i fatti, l’infelicità e i silenzi del loro incontro e del conseguente matrimonio, la profonda diversità sociale e dei rispettivi caratteri dove la mitezza, la semplicità e il bisogno di affetto di lei non trovano corrispondenza nella distanza e nella fredda severità di lui. Una narrazione che diventa un poetico e intenso corpo a corpo tra i due, fatto di continui contatti, tentati abbracci e sistematici rifiuti, di dominazione fisica e psicologica. Marito e moglie si muovono come in una danza attorno ad una scenografia fortemente simbolica composta solo da un tavolo che di volta in volta si trasforma diventando all’occorrenza banco dei pegni, porta, letto balcone e infine tomba.
Gran parte dei 60 minuti di spettacolo è giocata proprio sul gioco forza di un rapporto squilibrato e dominato dalla freddezza e dalla frustrazione di un uomo che all’amore puro e passionale ricambia solo con silenzio e distacco, fino ad un momento topico in cui si spezza definitivamente qualcosa, quello in cui lei tenta di ucciderlo. Questo gesto, interpretato con grande pathos, fa prendere coscienza all’austero usuraio quanto la mite e fragile ragazza gli stia sfuggendo, si stia disinnamorando (se innamorata lo è mai stata). Decide allora di aprirsi, di parlare e di arrendersi all’amore, ma lo fa quando ormai è troppo tardi, quando lei, oltremisura distante e svuotata dalla mancanza d’amore, o dalla incapacità di riceverne, decide di togliersi la vita lasciando all’anaffettivo marito solo il suo cadavere, un forte senso di colpa, la sua memoria e la disperazione di dover far i conti oltre che con sé stesso anche con l’assenza di una moglie uccisa dai suoi silenzi: “Finché lei è qui va ancora tutto bene, posso andare a guardarla ogni istante, ma domani che la porteranno via, come farò a rimanere da solo?”
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