Manuel Baldassare, vivere la vita come un’opera d’arte
Ebbri sono gli occhi di colui che posa lo sguardo su visioni di mondi possibili e fuggendo al concetto di definito, ascende al cielo come il figlio di Dedalo. Assume queste sembianze il corso del pensiero, quando l’artista Manuel Baldassare afferra lo scettro della parola. È necessario allora liberarsi dalla gabbia della razionalità, denudarsi e abbandonare per strada gli abiti della convenzionalità per avere l’accesso a un viaggio mistico costellato da specchi e inoltrasi, così, nel fascino del doppio. Sì, nella magica e perturbante seduzione del doppio, in cui l’Io incontra il Sé, l’atteggiamento erotico gioca con il simbolismo dell’amore, l’ombra è accecata dal riflesso, nel raggiungimento di un’autocoscienza in grado di governare l’onnipotenza dei pensieri. Ma c’è di più. A coabitare nel corpo e nella mente di Manuel Baldassare vi sono l’armonia e l’eccesso, ovvero coloro che i greci stabilirono come duplice fonte della loro arte: Apollo e Dioniso.
Una vocazione di avventura, fisica e spirituale, avvicina molto Manuel Baldassare ad Arthur Rimbaud. E come un ponte che collega il passato al presente, i due artisti si incontrano e si fondono nell’immagine del poeta errante illustrata nella celebre lirica “Ma bohème”: due anime perdute alla ricerca d’ispirazione nel caos del quotidiano. E sebbene la violenza, insita nella natura di Rimbaud, gli impedì di diventare un bohémien, lo stesso non si può dire per Manuel Baldassare. Trasferitosi a Parigi nel 2010, Manuel darà inizio alla sua poliedrica e totalizzante performance artistica.
“Non giunsi a Parigi con la consapevolezza o l’idea di restare, ma dentro di me una cosa era nitida: sentivo l’esigenza di voler crescere a livello poetico e di temperare il mio lato impulsivo e brutale. Ero in viaggio, probabilmente per fuggire da me stesso o forse per ritrovarmi: sappiamo benissimo che alcune decisioni sono condizionate da eventi che si intrecciano a loro volta. Nel mio caso, la perdita prematura di mio padre e l’omicidio di Matteo Salata, un mio caro amico con cui avevo formato Elkann Henudo, un gruppo musicale in cui lui suonava la batteria. Ad ogni modo un giorno, passeggiando nel cuore della città, m’imbatto in un grande edificio: il 59 di rue de Rivoli, uno degli spazi d’arte contemporanea a livello underground più noti in Europa. Feci una richiesta per la residenza artistica presentando un progetto e dopo un mese e mezzo entrai. Oltre a questo atelier, ne avevo un altro situato nel quartiere di Belleville e nel frattempo ero diventato il direttore artistico de Au Petit Théâtre du Bonheur, un piccolo teatro nel pulsante rione di Montmartre”.
Nel 2011 il 59 di rue de Rivoli è stato teatro di scandalo e di minaccia. Mi racconti cosa è successo?
“Nel 2011 al 59 Rivoli si stava svolgendo la mostra “No Condom Parade” con cui partecipavo con “Baby Burqa”. Si trattava di una bambina/barbie, parzialmente coperta dal burqa ma nuda nelle parti intime. Con una mano reggeva il Corano mentre con l’altra afferrava una bomba a mano: per questo motivo fui minacciato di essere sgozzato da due arabi che fecero irruzione nella galleria. Colpevole di aver peccato di blasfemia, a quanto pare. Devo ammettere però di non aver provato paura né di essermi lasciato intimorire così facilmente in quella circostanza: credevo e continuo a credere nella libertà di espressione. La situazione cambia se oggi mi soffermo a riflettere – con razionalità – a ciò che mi è accaduto e soprattutto alla luce della strage di Charlie Hebdo. Ricordo di essere stato tempestato da telefonate nel giorno dell’attentato: abitavo ad una distanza ridotta dalla redazione del giornale e la preoccupazione era alta, dati i precedenti”.
Pur mantenendo la tua residenza nel tetto-teatro nella città degli artisti per eccellenza, hai cominciato ad esportare e a far viaggiare la tue opere non soltanto lungo molti Paesi europei ma anche oltreoceano (New York, Miami). Nel frattempo, arriva quella che per i molti rappresenta l’agognato punto di arrivo: la prestigiosa rassegna internazionale di arte contemporanea, ovvero la Biennale di Venezia del 2013.
“Ero affaccendato in altro, quando la proposta per partecipare alla Biennale di Venezia si concretizzò davanti ai miei occhi. Vivevo ancora a Parigi, ma in quei giorni mi trovavo in un borgo vicino Treviso poiché stavo partecipando a un evento artistico il cui tema era la fragilità dell’arte. Scelsi una casa in rovina come luogo e oggetto della mia installazione: dalle macerie spuntavano braccia di manichini e il perimetro della dimora era costellato da uova incollate con del nastro adesivo. È lì che il curatore del Padiglione della Repubblica di Costa Rica, Fabio Anselmi, passando notò la mia opera e mi ritenne all’altezza della Biennale: ne fui entusiasta. Il mio progetto artistico portava il titolo di “Rianimation Art”: rianimare l’arte poiché attraversa una fase di coma. Ricreando un corridoio ospedaliero, delle flebo cariche di colori diversi – racchiuse in cornici appese alle pareti – gocciolavano su delle tele disposte sul pavimento. E se non è ancora morta, l’arte, è il concetto di poesia che scarseggia. Viviamo in un mondo regolato da meccanismi così frenetici che hanno danneggiato il contatto con la nostra spiritualità. È necessario riappropriarsi del nostro spazio interiore e rallentare il ritmo, come la caduta delle gocce di colore che dalle cannule si riversa a terra: lentamente”.
Oltre alle installazioni, Manuel Baldassare, ha un contatto molto forte con la pittura: volti, paesaggi e teschi prendono vita su nude superfici. E se ci distraiamo un attimo, possiamo trovare una “Blu Mona Lisa” accanto a paesaggi che raffigurano non tanto dettagli naturalistici, quanto una vera e propria trasposizione visiva dei moti d’animo di Manuel Baldassare, della condizione di cui è ‘vittima’ in quell’istante di creatività assoluta e di follia bacchica. E non è finita. Manuel Baldassare non si accontenta di conoscere soltanto la sua anima. Vuole esplorare anche quelle di coloro che ritrae: non lo dichiara, ma è esattamente ciò che fa quando, fissando gli occhi del modello e mai distogliendo lo sguardo da esso, ne delinea i tratti senza dare una sbirciata al foglio. Neanche una volta. Si tratta dei suoi particolari lavori di depersonalizzazione: il volto delineato è ciò chi siamo filtrato dalle emozioni e sensazioni che l’artista prova nell’attimo stesso in cui afferra la matita fra le sue dita: “siamo vittime e carnefici di noi stessi, esprimiamo dei concetti contrastanti e controversi, alterniamo momenti di gioia sfrenata a mesi di introspezione acuta. L’arte contemporanea deve essere conscia della propria dualità” dichiara con fermezza.
Esteta, erotico e pornografico, ama definirsi istrionico e in questo somiglia molto a Nietzsche quando, in Ecce Homo, dichiara che piuttosto santo preferirebbe essere un satiro ( figura che ha avuto successo presso gli artisti da tempo immemore). E un satiro, oggi, non è altro che la nuova sintesi dell’apollineo e del dionisiaco, una combinazione che in Manuel Baldassare si traduce in rapimento estatico: “io vivo la mia opera d’arte e la mia opera d’arte sono io, è la mia vita. Non vivo facendo l’artista ma vivo facendo la mia opera d’arte”. E a completare la sua installazione vivente, ci sono anche il teatro sperimentale e soprattutto la ricerca del suono che attualmente esprime nei Cosmic Bloom: gruppo con cui è possibile avviare un viaggio mistico oltre i confini della coscienza.
Libero e anticonformista, Manuel Baldassare, è probabilmente l’ultimo artista bohémien.
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