Antonio Ligabue, il folle genio dell’espressione pittorica
Non studiare niente e imparare tutto. È in questo assioma che si sintetizza e nasconde, l’ammaliante mistero dell’arte naïf. Tutto ciò che si apprende allora, diviene frutto del caso e della necessità, usando parole parmenidee. In questo sfuggente territorio, inseriamo Antonio Ligabue: il folle genio dell’espressione figurativa ingenua.
Quando ci si avvicina all’opera di Antonio Ligabue, due elementi sono necessari per poter accedere, almeno in parte, alla sua potenza espressiva: la biografia e la psicoanalisi, vale a dire “Al Tedesch” e “Al Mat”, i due appellativi che lo accompagneranno per tutto il corso della sua vita. Ma procediamo per gradi. Antonio Ligabue, al secolo Laccabue, nasce a Zurigo il 18 dicembre del 1899 da Elisabetta Costa e da padre ignoto. Quando la madre sposa Bonfiglio Laccabue, Antonio ne assume il cognome. Il piccolo Antonio però, sin dal 1900, viene affidato a una coppia di svizzeri, Elise Hanselmann e Johannes Valentin Goebel. Da quella data, trascorre più di un decennio, prima che un evento lo segnerà inevitabilmente: a San Gallo, nel 1913, la madre naturale e i tre fratellastri, muoiono per un’intossicazione da cibo. Antonio, considererà come unico responsabile il padre adottivo Laccabue. Del resto il “Morgenlblatt”, un giornale di Widnau, descriveva quest’ultimo come “un bruto dissoluto e ubriacone che continuamente tormentava i figli”. A questa tragedia si fa risalire la sua volontà, successivamente, di cambiare il suo cognome da Laccabue a Ligabue. I dolori certamente non conoscono qui la fine per il futuro genio tormentato. Antonio Ligabue, rachitico e con grandi orecchie a sventola, era preso crudelmente in giro dai suoi compagni di scuola: a causa della sua indole turbolenta (“duro di comprendonio”), le espulsioni, suggerite dal medico scolastico, non furono poche. Nonostante fra Antonio e la madre adottiva Elise Hanselmann, ci fosse un sincero legame di affetto, fu essa stessa a volere l’esilio del figlio a Gualtieri, dopo a una lite probabilmente più accesa delle altre. In questo modo, dal 9 agosto 1919 la fase territoriale de “Al Tedesch” (il Tedesco) si unisce ufficialmente a quella dello spazio intimo de “Al Mat” ( il Matto) per dare vita a “al Pitur” (il Pittore). Ricordiamo che almeno dal 1913, Antonio Ligabue, era stato vittima di una serie di ricoveri in ospedali psichiatrici per via dei continui sbalzi d’umore, caratterizzati da improvvisi stati di eccitazione e seguiti da intensa malinconia. A questa sistematica ‘prigionia’ fisica, si aggiunge quella mentale dovuta alla difficoltà d’espressione verbale. Così, giunto a Gualtieri, decide di inventarsi un linguaggio tutto suo per farsi capire dalle persone: fra tedesco, italiano, dialetto emiliano, nasce l’idioma Ligabue.
Ma qual è il momento in cui Antonio Ligabue esce dall’anonimato e si prepara ad ascendere al monte degli dei? Senza ombra di dubbio, durante l’incontro nel 1928 con lo scultore Renato Marino Mazzacurati. “Lo strano individuo era vestito con una vecchia divisa militare che che aveva imbottito con paglia e fieno per ripararsi dal freddo. Il suo sguardo era fisso su un barattolo che, sostenuto da un trespolo, bolliva sul fuoco. In uno strano linguaggio difficilmente comprensibile, Toni spiegò che dentro la “pentola” stava lessando la carne di cane e che la parte restante era conservata sotto la neve affinché si conservasse meglio. La povera bestia, ci tenne poi a precisare, era stata uccisa per errore da un cacciatore, sicché non avendo nient’altro di cui cibarsi, aveva deciso di mangiarla un po’ per volta”. Mazzacurati non sapeva di parlare con un collega in quella circostanza: quando lo scoprì, gli insegnò l’uso dei colori ad olio, avviandolo verso la coscienza d’artista. La pittura veicola la sofferenza, il disagio psichico si trasforma in arte. Antonio Ligabue parte dalla realtà, e se la realtà che vede in quel frangente è lui, allora dà vita alla tragicità dell’essere umano. I suoi autoritratti hanno sempre la stessa composizione: occhi enormi che fissano il nulla, busto in primo piano, capelli tagliati alla francescana, stessa espressione. A cambiare sono soltanto i paesaggi e piccoli dettagli, come un corvo, una farfalla, un cappello. A parte la sua immagine denotante ossessione, i veri protagonisti della pittura di Ligabue, sono gli animali: è il ritorno alla natura che lo distoglie dai continui propositi di suicidio; è la natura, il luogo della lussuria. Ligabue “ululava, ululava se dipingeva lupi, ruggiva se dipingeva leoni”, è questa la descrizione fedelmente realistica che ne fece Cesare Zavattini, osservandolo nel momento creativo. Comunicava con gli animali, si immedesimava in loro: egli stesso era l’animale ritratto. Sebbene Antonio Ligabue desiderasse la quiete, non riuscì ad ottenerla neanche dopo la fama e il successo: la lotta felina dentro di lui restò sempre accesa e ardente e, fra un quadro e l’altro, i ricoveri presso gli ospedali psichiatrici continuarono, come una triste costante della sua esistenza.
Nella vita di Antonio Ligabue, oltre alla tragedia famigliare, al disagio esistenziale, un altro dolore straziava la sua anima: la mancanza dell’affetto e dell’amore di una donna. “Dam un bès”, “dammi un bacio”, è la richiesta che avanza a una ragazza in cambio di un disegno. E se ciò non avviene, vale a dire mai, talvolta Ligabue indossa abiti femminili, così da ingannare sé stesso di essere in compagnia e riempire così quel vuoto che ormai è diventato una voragine di disperazione. Poi una fioca luce di speranza. A sessant’anni, la possibilità del matrimonio stava per concretizzarsi con una tal Cesarina, quando il grande sogno svanisce in fretta: un attacco di paresi manda in frantumi il progetto più desiderato della sua vita: l’amore. E come la triste costante di cui sopra, viene inviato all’ospizio di Gualtieri: qui, nel 1963 chiede di essere battezzato e cresimato, mentre la sua pittura – senza che se ne sia reso conto e mai ne sarà consapevole coscientemente e pienamente – è diventata un vero e proprio caso in tutta la penisola. Antonio Ligabue, l’artista folle, dalla grande forza rituale e dall’istinto animale, si spense il 27 maggio del 1965.
“Dopo morto i miei quadri costeranno tanti soldi”, era solito minacciare Antonio Ligabue nell’immediato dopoguerra. E aveva ragione: la minaccia è viva ancora oggi.
Vai alla home page di LineaDiretta24