L’uomo dal fiore in bocca al Teatro Quirino, la bellezza della quotidiana banalità
Un assordante strepito di tuono squarcia il silenzio della platea e dà inizio al persistente temporale che accompagnerà tutto lo spettacolo. Comincia con questa battente (e reale) pioggia la travolgente rappresentazione de L’uomo dal fiore in bocca…e non solo di Pirandello, rivisitato, diretto e interpretato dal talentuoso Gabriele Lavia, attore e regista tra i più rappresentativi del teatro italiano degli ultimi quarant’anni. Il breve atto unico, in scena al Teatro Quirino fino al 18 dicembre, riprende non solo la nota opera teatrale pirandelliana, ma come suggerisce lo stesso titolo con l’aggiunta di quel …non solo, è arricchito da brani di altre novelle del drammaturgo siciliano che, come La morte addosso da cui l’opera è tratta, affrontano i temi cari a Pirandello, ovvero l’incomunicabilità tra gli individui, il rapporto tra uomo e donna (in modo particolare quello tormentato tra marito e moglie), il bisogno di esorcizzare le paure attraverso l’uso della maschera, e soprattutto la questione della morte, pressoché onnipresente in tutta la sua opera. Oltre all’uomo dal fiore in bocca magistralmente interpretato da un convincente Lavia, gli altri protagonisti sono un “uomo pacifico” dall’esistenza anonima e convenzionale (Michele Demaria) e una donna che si vede passare come un’ombra al di là della vetrata sullo sfondo (Barbara Alesse) che suggerisce la moglie dell’uomo e che è al contempo simbolo di morte, “donna e morte sono infatti figure inscindibili, quasi sovrapposte per Pirandello”.
La rappresentazione si svolge interamente all’interno di una sala d’aspetto di una stazione ferroviaria, riprodotta nei minimi dettagli da Alessandro Camera che ha creato un’imponente scenografia con tanto di polvere sui lampadari, talmente verosimile da rendere assolutamente impercettibile il confine tra realtà e finzione. Il pacifico avventore, a causa del temporale e dei numerosi pacchetti che porta con sé, perde il treno ed è costretto ad aspettare quello successivo nella sala d’aspetto insieme all’uomo che già si trovava lì seduto. Nelle due ore di attesa i due cominciano a colloquiare per ammazzare il tempo, ma la conversazione assume ben presto contorni profondi e complessi. Sotto un incombente orologio senza lancette e con il rumore di sottofondo di una pioggia battente, l’uomo si rivela all’avventore fino a confidargli ciò che lo affligge: una forma tumorale sul labbro (il fiore in bocca, come delicatamente lo definisce) che gli lascia poco tempo da vivere, inducendolo dunque ad indagare il mistero della vita e della morte con appassionata lucidità, a penetrarne l’essenza e riscoprire la bellezza e l’importanza di tutti quegli aspetti della vita apparentemente insignificanti e banali che riempiono ogni momento dell’esistenza.
L’imminente vicinanza della fine fa cogliere all’uomo la meraviglia dei più minuti gesti quotidiani, come la minuzia dei commessi di negozio nell’impacchettare la merce venduta. Un’urgente meditazione sulla vita che è di conseguenza intima e intensa considerazione sulla morte, sul suo mistero e sulla necessità di esorcizzarla, sull’enigma della Donna come essere irrinunciabile e sull’incanto di certi piccoli particolari che nella loro banalità conferiscono senso stesso all’esistenza.
In questo spettacolo tutto è incredibilmente reale: la stazione, gli spari, il treno che parte, la pioggia e i tuoni, i vestiti bagnati dei personaggi e quel senso di inadeguatezza che tutto pervade, nell’incapacità di spiegare l’insensatezza e la meraviglia di questa esistenza, sforzo del tutto inutile per noi comuni mortali poiché come scriveva lo stesso Luigi Pirandello “la vita non si spiega, si vive”.
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