Roots, al Roma Fiction Fest il ritorno di Kunta Kinte 40 anni dopo
Era il 1977 e la serie “Roots”, prodotta dall’americana ABC, raccontò al mondo per la prima volta la storia della schiavitù attraverso l’epopea dello schiavo Kunta Kinte e dei suoi eredi, facendo il giro del mondo. Questa crudele storia di schiavitù, privazione ed ingiustizia si era basata su fatti realmente accaduti agli antenati dello scrittore americano Alex Haley, forse il primo a mettere nero su bianco, e senza sbavature, un pezzo scomodo di storia a stelle e strisce. 40 anni fa Roots ebbe un successo planetario notevole (in Italia arrivò l’8 settembre 1978 su Rai 2 in prima serata): fu nominata per una quarantina di Emmy Award e ne vinse ben nove, più un Golden Globe ed un Peabody Award.
Lo scorso 30 maggio, per celebrare il Memorial Day americano, quella giornata in cui si commemorano i soldati americani caduti di tutte le guerre, su History Channel, ma anche sui canali A&E e Lifetime, gli americani hanno assistito al pilot della versione moderna dell’omonimo show del 1977, prodotto da History Channel stessa. In Italia arriverà il 16 Dicembre su Sky canale 407, ed è stato presentato nella serata di ieri fuori concorso al Roma Fiction Fest 2016. Ovviamente la storia è la stessa, ma il modo in cui è stata realizzata e riproposta non potrebbe essere più differente. Come accennato, il primo Roots era stato prodotto da ABC, un network notoriamente di stampo “familiare”, dunque avaro di realismo nudo e crudo. Adesso la musica è cambiata, poiché History Channel, che è il canale della storia per eccellenza, ha deciso di non risparmiare nulla a chi guarda i suo programmi, in special modo uno come Roots, che ha l’obbligo di mostrare ciò che è stato senza dover per forza indorare la pillola.
Nella versione moderna Malachi Kirby è Kunta Kinte (già visto in Doctor Who e Black Mirror), un giovane ridotto in schiavitù con la complicità dei membri di una tribù nemica, che intraprende un viaggio da incubo che dal Gambia, suo paese natale, lo porterà, ridotto in catene, nel cuore dell’America coloniale. “Questa storia è la mia storia. È un pezzo di cultura che ho dentro. La mia più che recitazione è stata una percezione reale di ciò che è stato”. E di percezione reale di ciò che veramente accadeva a questi esseri umani, strappati alla loro terra ed ai loro cari per diventare delle macchine da lavoro, c’è n’è da vendere, anche standosene comodamente seduti dietro uno schermo. La crudezza di certe scene, così palpabili nel loro realismo, hanno toccato il giovane Malachi Kirby, il quale ha confessato di aver trovato una certa difficoltà nell’interpretarne alcune: “La scena della nave è stata una sfida molto difficile”.
Tra i produttori esecutivi del nuovo Roots troviamo anche LeVar Burton, il protagonista della miniserie del 1977, il quale ha avuto modo di seguire Malachi Kirby (“L’unico consiglio che gli ho dato è stato quello di fare suo il personaggio. Gli sono stato vicino nelle scene più difficili, come quella delle frustate ad esempio”) e dare un prezioso contributo alla realizzazione di questa storia. Ma perché, dopo 40 anni, Roots ritorna sullo schermo? È proprio “l’originale” Kunta Kinte, LeVar Burton, a rispondere a questo interrogativo: “La schiavitù non è mai stata eliminata dalla storia del mondo, per questo abbiamo pensato di raccontare questa storia di nuovo, perché è una storia universale, una storia che tocca tutti, una storia che affronta tematiche come la famiglia, la dignità, la libertà dell’individuo, tematiche che sono appunto universali. Non a caso 220 paesi hanno acquistato Roots”. E in quanto al realismo che, come già accennato, è forse il vero protagonista di questo remake, insieme alla veridicità storica, LeVar Burton ci dice: “Grazie alle maggiori ricerche storiche siamo stati in grado di realizzare molti più particolari corretti che, nella versione di 40 anni fa non c’erano. Ad esempio il villaggio di Kunta Kinte, che non era un semplice agglomerato di capanne, ma un centro di commercio molto importante all’epoca. Ma anche gli usi e le abitudini dei guerrieri mandingo” (non a caso i regni mandingo hanno continuato a esistere fino all’arrivo dei colonizzatori europei, quando, tra il XVI e il XIX secolo, deportarono in America come schiavi circa un terzo della popolazione).
In conclusione, oltre ad un cast di tutto rispetto (i premi Oscar Forest Whitaker e Anna Paquin, Laurence Fishburne, Jonathan Rhys Meyers e James Purefoy), Roots è una sorta di documentario, ci racconta determinati fatti e ce li mostra al naturale, così come sono stati, senza mezze misure, senza veli, senza inutili censure o pudori. E ne è un esempio il viaggio in mare, dove vediamo questi uomini stesi uno addosso all’altro, le loro ferite aperte, i denti digrignati, le urla di coloro che non ne possono più delle catene… È così che la tv riesce a dare allo spettatore un ricordo indelebile e, quel che è più importante, evocativo, di quegli eventi che nell’immaginario collettivo sono semplicemente nozioni storico-scolastiche, mentre nella realtà sono il passato vero, quello storico, di una intera comunità che non può dimenticarlo e non vuole rinnegarlo.
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